KEVIN RICHARD MARTIN, Frequencies For Leaving Earth – Vol.1 – 5
Kevin Martin ha creato una nuova etichetta personale, la Intercranial. Durante il lockdown e nei mesi successivi ha dato vita a cinque album coi quali abbandonare la Terra, una sensazione che molti di noi (i più fortunati, perché vuol dire che stavamo bene) hanno provato nel corso di quest’isolamento obbligatorio. Abbiamo avuto tempo non solo di preoccuparci per i nostri cari o per il lavoro, di ricominciare a bere o a fumare, ma anche di meditare.
Il primo capitolo è ambient purissimo, melodico, al rallentatore, con una base che lascia immaginare subito scenari spaziali oppure di essere semicoscienti all’interno di qualche gigantesco tunnel nel quale sentiamo il suono lontano dei veicoli che lo percorrono, incuranti della nostra presenza. Se a qualcuno servisse un sottofondo per la lettura del Canto IV della Divina Commedia, ecco qui la colonna sonora del Limbo, dove le anime soffrono senza tormenti. Roba niente male anche per il Purgatorio, comunque: l’ultima traccia si intitola “I Became Light”, non sembra per caso.
Il secondo capitolo, caratterizzato dall’uso dello Shepard Tone e dal suono del mellotron, ha un qualcosa di ancora più fantascientifico: la sensazione, spesso, è quella di viaggiare all’interno di qualche metropolitana del futuro, di quelle che vanno da Roma a Mosca in venti minuti. Tendenzialmente, Vol. 2 rimane atmosferico e con le strutture ridotte all’essenziale (la grande lezione del dub), ma sicuramente è più spigoloso, dinamico, cupo, angosciante e teso del suo predecessore, condividendo invece con esso una coerenza estetica interna che pochi riescono a dare ai loro dischi. Non è un caso se a metà ottobre Martin ha sonorizzato dal vivo “Solaris” a Gent (si è trasferito da poco a Bruxelles, pare): credo proprio che “da grande” voglia lavorare per il cinema science fiction. Non so cosa aspettino a ingaggiarlo.
Il terzo capitolo è quello che mi sembra giocare in modo più scoperto con un tema ricorrente, uno stratagemma che piace al sig. Bug, basta ascoltare Sirens del 2019, inizialmente quasi (quasi, occhio) luminoso, ma poi deformato e soffocato dalle sabbie mobili delle basse frequenze. Non so che idea ho alla fine, perché a questo giro tutto è architettato in modo ammirevole, forse fin troppo.
Si arriva al Vol. 4 e nella presentazione si legge che potrebbero essere i Boards Of Canada insieme a Kevin Shields. Quindi è un capolavoro? Di sicuro è un provare a unire – ancora una volta – rumore e melodia: credo si intenda questo, però non c’è solo questo. Visto che il suono qui avanza molto lentamente, il primo pensiero quando ascolti è che Justin Broadrick gli abbia chiesto di remixare Jesu, ma poi le cose cambiano: Kevin si ricorda di aver inventato il termine “isolazionismo” (sono album “causati” dal lockdown, ribadisco) e da “Fear Of Contact” (appunto) fa partire una sorta di dub immobile che lo riporta al suo passato, ma anche al suo presente (Zonal, sempre con Broadrick). Da “Time Stands Still”, invece, tutto diviene più minaccioso e il rumore qui torna alla sua funzione originaria – causare danni – prima che tutto si plachi di nuovo e torni nell’abisso da cui è salito. Nulla da eccepire, nemmeno in questo caso.
L’ultima puntata è malinconica e contemplativa: pare che i primi frammenti siano nati nel 2019 durante un lungo viaggio aereo da Berlino al Messico. Qualcuno sentirà di nuovo l’eco di Sirens in queste tracce caratterizzate ancora da basse frequenze molto profonde e da un approccio melodico, ma da “Another Bill To Pay” (che c’entri col trasloco di Martin da Berlino a Bruxelles?) c’è uno scarto rispetto al bellissimo disco dell’anno scorso, il suono prende una sua autonomia e un suo colore, per poi – curiosamente – sprofondare di nuovo nell’abisso, come nel Vol. 4.
Tutto da avere. Dovendo scegliere, soprattutto i primi due lavori.