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KENNEY ​/ ​KANG​ / ​PARK, At Temple Gate

Kenney

I dischi di Eyvind Kang e sua moglie Jessika Kenney potrebbero essere presi tutti insieme e ci si accorgerebbe che li lega un filo sottile, poiché i modi e i temi che li percorrono si intersecano e talvolta sovrappongono, in un gioco di rimandi applicabile all’infinito.
At Temple Gate non fa eccezione, nelle sue quattro tracce ritroviamo gran parte delle idee sviluppate nel corso della loro discografia: quella del suono e la sua ombra, metafora del rapporto tra i loro strumenti principali (viola lui, voce lei), sincronizzati asimmetricamente nella delicata essenzialità di “Aestuarium”; l’interesse per le tradizioni del Medio ed Estremo Oriente (in particolare quella giavanese e persiana) e il loro approfondirle alla luce di una pratica continua, affiancata da percorsi di studio accademici (entrambi insegnano musica al Cornish College di Seattle).
Tutto ciò potrebbe farceli apparire come due secchioni un po’ spocchiosi, ma la realtà è che sia Kang, sia la Kinney vantano una serie di collaborazioni non proprio colte (lui è dietro agli arrangiamenti di dischi come Monoliths & Dimensions dei Sunn O))) e Mare Decendrii dei Mamiffer, lei ha cantato per band come Asva e Wolves In The Throne Room) e la loro musica è da sempre in bilico tra ere e continenti, acustica ed elettronica, cultura e rifiuto dei limiti da essa imposti, all’interno di una ricerca libera e spirituale.
Nel tempo i loro percorsi si sono in un certo senso scissi e distanziati, come la morbida calligrafia di Yoko Murao sulla copertina del disco, che partendo dalla punta di una penna potrebbe estendersi enormemente, travalicando i confini del packaging.
At Temple Gate li ritrova infatti più cattivi e spuri rispetto all’ultimo The Face Of The Earth, anche grazie a un rinnovato interesse per la sperimentazione elettronica e alla presenza della giovane percussionista coreana Hyeonhee Park. I temi del doppio e degli opposti tanto amati da Kang brillano qui di un magnetismo che illumina i temi di vita e morte, malattia e guarigione, terrore ed eroismo.
Nell’antico rito coreano che dà il titolo alla prima traccia, “Faites Le Mal”, la voce di una donna è il ponte tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Le parole di Artaud – cantate da una Kenney più messianica e sciamanica che mai – descrivono un’incursione terrificante nel rovescio della vita e si allungano sui colpi di janggu della Park. L’essenzialità della scrittura permette agli strumenti di farsi portatori di significato e guidare la narrazione. I registri vocali cambiano e divengono fry viscerale, in una curva dinamica che è lotta ancestrale del linguaggio. I field recordings, filtrati e manipolati, crescono in un’architettura proterva e minacciosa. Il tutto va ad articolarsi in una performance sonora violentissima, che ci dice qualcosa anche sulle condizioni in cui versava il corpo di Artaud al momento della stesura di quest’ultima, disperata, poesia. Dalla miope crudeltà dei primi versi “Do evil, do evil and commit many sins but do no evil to me”, fino all’epilogo di “Let me have around me the pure, the pure heroes”, un testamento a Dio che diviene quasi catartico e ci accompagna al lato successivo, decisamente più etereo, ma non per questo consolatorio.
“At Temple Gate”, scritto a tre mani, schiarisce le atmosfere con un lungo drone di voce e viola superfiltrate, ma ben presto le varie entità si erodono vicendevolmente, fino a divenire “altro”, in una sintesi psichedelica che accende l’atmosfera di un’inattesa solarità.
“Vowel”, scritta da Park, mostra la sua confidenza anche con l’elettronica, che pur non essendo accompagnata dalle percussioni, cresce con il ritmo degli oscillatori a bassa frequenza.
L’ultima traccia, “D’Astres Moudangs”, polarizza i contrasti tra cielo e terra, in una comunione ultraterrena dalla potentissima valenza negativa. Suoni incastrati tra due mondi, schiacciati tra i sospiri e le trame di un noise gelido e pervasivo, armonico come il soffio del vento moltiplicato all’infinito.
La bellissima copertina di Michael Thiel, con una montagna di capelli neri a specchiare una montagna vera e propria, è un caleidoscopio ricco di significati: la chioma come metonimia dell’umano e la montagna, metonimia del mondo, forme triangolari che si specchiano abbracciate dall’oscurità che caratterizza l’ascesi dell’uomo verso il divino e l’universale.