KEL ASSOUF, Black Tenere
Tra gli ultimi dieci stati al mondo per PIL procapite, il Niger, incastonato tra Algeria, Ciad, Nigeria, Burkina Faso e Mali, è composto per due terzi del proprio territorio dall’inabitabile Sahara. Teneré in lingua tuareg significa proprio deserto, ed è la parte centromeridionale della sconfinata regione sabbiosa, dove non c’è nessun tipo di vegetazione e d’estate si raggiungono i quarantadue gradi. A rendere ancora più estrema la situazione, l’acqua si trova con enorme difficoltà e i pozzi possono distare tra loro anche centinaia di chilometri. Nonostante questo contesto proibitivo, la zona è stata famosa, fino al 1973, per l’esistenza dell’albero del Teneré, un’acacia distante addirittura 400 chilometri da ogni altro tipo di vegetazione. Punto di riferimento per le carovane di cammelli nel nordovest del Niger, era l’unico albero ad essere segnato su una cartina in scala 1:4.000.000.
Un albero piccolo, alto appena tre metri, miracolosamente vivo in un infinito deserto, sopravvissuto agli animali, agli dei ed agli uomini. Qualcosa di fragile e monumentale al tempo stesso, dunque. Da una terra aspra e bollente arrivano nove tracce torride, portate da un Ghibli maestoso, dove si incontrano rituali ancestrali, sbornie elettriche, blues ossuto e disadorno e un senso dello spazio che porta ad alzare il volume e a schiacciare il tasto repeat.
Un suono massiccio e sensuale, prodotto con mano sapiente da Sofyann Ben Youssef, tastierista della band e mente dietro ai grandi Ammar 808, dei quali potete trovare in free download qui una nuova traccia. Un’ipotesi Kel Tamasheq capace di spaziare dall’ormai classica impronta dei Tinariwen dell’iniziale e trascinante “Fransa” allo stomp ’70 di “Tenere”, dall’afrokraut di “Alyochan” (purissima ipnosi) alla nenia tra radici secolari e pennellate ambient di “Tamatant”. Ogni traccia suona densa e convincente, pur non inventando nulla di inedito: semplicemente, si sente l’ispirazione forte che anima il suono, sia quando indugia su toni più robusti (“America”), sia quando invece i battiti rallentano e si finisce per planare da qualche parte a metà strada tra Ali Farkà Tourè ed i Black Crowes (“Amghar”). Anana Hag Haroun, il leader, Gibson Flyng V a tracolla e taghelmoust (il lungo velo tradizionale tinto con l’indaco, usato come copricapo), è un figlio del vento trapiantato a Bruxelles e intenzionato da lì a portare ovunque il verbo nomade di questo nuovo, antichissimo rock’n’roll. Rock: oscillare; roll: rotolare (aiuta a farlo nel migliore dei modi Oliver Penu, il batterista, belga). Rocking: un termine usato nel gospel del Sud degli Stati Uniti per indicare uno stato di trance, un’estasi mistica. Avete presente il magnifico docufilm “From Mali to Mississipi”, della serie “The Blues” prodotta da Martin Scorsese? Come in quelle favolose e realissime storie, in quegli incroci di geografie lontane eppure consanguinee, così in questo loro terzo disco si torna alle fonti, dove tutto è cominciato.
Da fine maggio la band farà ben cinque date in Italia. Questo Black Tenere è una bomba e dal vivo ci aspettiamo scintille. Un disco da sbattere in faccia a tutto volume a chi straparla di porti chiusi e di invasione.