KATARINA GRYVUL, SPOMYN
Sconnesso, frammentato e disturbato: per Katarina Gryvul è solo così che può essere rappresentato lo “spomyn” (letteralmente, il ricordo). Con questo titolo la violinista e compositrice ucraina giunge alla sua terza prova su disco, determinata a dare forma ad un’esperienza sonora sconvolgente e soverchiante, in cui la memoria è protagonista raramente consolatoria e sovente carica di insoluti.
Otto composizioni sorrette principalmente da performance vocali torturate da brutali manipolazioni; un tessuto strumentale che oscilla tra schegge dubstep e downtempo impazzite, allucinazioni rinascimentali e post new-age, clangorosi deragliamenti electro-noise e refrain debitori della Björk più ispirata.
Ad un ascolto attento – e volendo sfrondare le tracce del montaggio isterico a cui Gryvul le sottopone – si scorgono strutture melodiche e soluzioni compositive vicine all’art-pop e contaminate da stili dell’ultimo ventennio (gli arrangiamenti trip-hop della maliosa “Vdykh Vydykh”, ad esempio), attraversate da un’intensa corrente emozionale, a volte addirittura con intenti operistici (“Pole Polynu”).
La rigida omogeneità timbrica di Spomyn e la propensione a frantumare continuamente la narrazione musicale sono scelte radicali che traccia dopo traccia mostrano tuttavia qualche segno di debolezza, risultando alla lunga prevedibili, soprattutto quando a sorreggerle ci sono idee meno ispirate (“Zovsim Niskil’ky”) o quando le timbriche dubstep assumono maggiore rilievo (“Mertvi Zhyttyam”). Rimangono assolutamente degne di nota le progressioni armoniche dense di pathos, evidente retaggio del background classico della Gryvul.
Sarebbe fin troppo facile vedere in quella voce eterea e distorta immagini di nereidi stritolate e martoriate da granate e missili, caricando l’album di un fardello emotivo e politico senza avere alcuna certezza che al momento della scrittura fosse davvero quella l’intenzione della compositrice. Nell’arte e nella musica spesso i motivi e gli intenti si avviluppano alle esigenze estetiche e narrative. Di sicuro, la solenne e conclusiva “Vichnyy Vohon’” ha i toni soffocanti di un requiem, ma anche una stesura lineare che punta dritta all’anima, per cui è difficile non provare un muto struggimento all’ascolto.
L’universo sonoro della Gryvul si pone dunque a crocevia tra continuità e discontinuità, preservazione dell’identità culturale e iconoclastia sintetica, in un infinito processo di distruzione e creazione perennemente avvolto da una coltre di romantica tragedia.