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KARITI, Covered Mirrors

Mentre in Italia piangiamo i morti in un’agghiacciante disaster reality, Kariti – artista russa che in Italia abita ormai da tempo – pubblica un album d’esordio, via Aural Music, che potrebbe alleviare i nostri tormenti e si rivela interessante a prescindere dalle eventuali coincidenze storiche. Kariti, in un antico linguaggio liturgico di origine slava, significa proprio omaggiare i cari estinti. La intro posta all’inizio di Covered Mirrors, tra preghiera e rito pagano, basata su alcuni canti funebri della tradizione russa, affascina immediatamente, non si capisce se trascinandoci in una valle di lacrime o su un precipizio di risate beffarde. A un’antica usanza funebre italiana, in voga specialmente nel Meridione, guarda anche il titolo dell’intero lavoro, Covered Mirrors appunto: quella, cioè, di coprire gli specchi delle case dei defunti con panni e coperte, in modo che la loro immagine non vi rimanga bloccata o possa trascinare con sé persone ancora in vita.

Il dark folk della songwriter, autonoma in scrittura, esecuzione e produzione, affiancata in pratica soltanto da Marco dei Grime come ospite alla chitarra elettrica in un paio di episodi, si sviluppa attraverso otto tracce che vanno dalle melodie acoustic dream di “Sky Burial” al minimalismo introspettivo di “Kybele’s Kiss” – immaginiamo in riferimento alla forza parimenti creatrice e distruttrice della natura – e “Penance”,  dagli insinuanti riverberi palesemente goth de “Il Corvo” alla delicatezza di “Absent Angels”, sino alla chiusura epica nella sua essenzialità di “Пропасть (Abyss)”. Le canzoni sono nate innescandosi dagli scritti accumulati nel corso degli anni da Kariti, interessata tanto al linguaggio letterario quanto a quello musicale: ecco così che il rito officiato con l’emblematica “Крещение ведьмы (The Baptism Of A Witch)” si riallaccia a un vecchio brano russo sul tema della reincarnazione. Il testo dell’elettrica “Anna (Requiem To Death)”, invece, si basa su una libera traduzione di una poesia di Anna Akhmatova.

Le note stampa parlano di “una peregrinazione catartica attraverso il lutto”, che fa pensare quando alla Marissa Nadler degli esordi quando alla Chelsea Wolfe più scarna, per quanto tra le fonti di ispirazione figurino innanzitutto Scott Kelly e Steve Von Till dei Neurosis. C’è oscurità nel disco, molta, ma in realtà le registrazioni curate da Lorenzo Della Rovere, che ha aggiunto qualche corda qua e là, si sono svolte sotto il sole cocente, nella campagna più isolata, durante l’estate del 2019, forse l’ultima estate felice del mondo. Un sole che ha ridotto ogni cosa all’osso, quasi mandandola in combustione verso una nuova trascendenza. Il master è stato affidato a Lorenzo Stecconi (Ufomammut, Zu). È il momento di sollevare il velo e specchiarsi.