Kamilya Jubran e Werner Hasler: creatori, improvvisatori, interpreti

Kamilya Jubran è oggi una figura di riferimento imprescindibile per capire dove stia andando la nuova musica contemporanea, fin dove può spingersi con l’ibridazione di ambiti e generi che vanno dalla tradizione classica mediorientale alla musica popolare palestinese, fino all’improvvisazione radicale. La sua storia è intensa e appassionante e nel corso dell’intervista ne esce un ritratto che va ben al di là dell’ambito strettamente artistico, dunque giusto qualche nota introduttiva prima di lasciare la parola a lei e a Werner Hasler: Kamilya Jubran nasce nel 1961 ad Acri/Akka (Galilea) da una famiglia di musicisti e liutai palestinesi, impara a suonare vari strumenti fra cui il santur e l’oud, di cui diverrà interprete virtuosa e decisamente anticonvenzionale. Cresce in un mondo isolato ma permeato dalla politica e dalla musica sia come mezzo di sostentamento, sia come strumento per affermare identità e appartenenza culturale. Nel 1981 si trasferisce a Gerusalemme Est dove conosce Said Murad (1959), fondatore dell’ensemble/collettivo di musicisti Sabreen (“Coloro che hanno pazienza”). L’anno seguente si unisce al gruppo, unica musicista araba-israeliana cioè palestinese nata in Israele. Nel 2002 si trasferisce prima in Svizzera, poi in Francia. Nel 2014 oltre alla produzione di dischi e all’attività concertistica fonda l’associazione no-profit Zamkana che promuove e sostiene progetti artistici originali ed eterodossi “nel rispetto dei valori della libertà di espressione e della laicità”. L’incontro con il celebrato trombettista, improvvisatore elettronico svizzero Werner Hasler (Berna 1969) ha significato una svolta per entrambi e questo il racconto che ce ne fanno.

Ciao Kamilya, ciao Werner, grazie per questa intervista. Siete impegnati in un lungo tour che toccherà mezza Europa fra cui il Meakusma Festival di Eupen in Belgio dove naturalmente saremo al vostro concerto.

Kamilya, dopo i primi anni da autrice solista e l’esperienza con i Sabreen nel 2002 sei venuta in Europa dove la tua carriera artistica è decollata a livello internazionale e certo per qualunque musicista il “cambiamento” in senso lato è fondamentale per crescere e maturare una propria voce originale, anche se la diaspora degli artisti palestinesi oggi più che mai sembra un destino inevitabile. La domanda è: quanto pensi sia cambiata oltre che cresciuta Kamilya in tutti questi anni europei e quanto invece nel profondo no?

Kamilya Jubran: Mi sono formata ed educata grazie alle musiche tradizionali del Vicino Oriente, principalmente alle “grandi” scuole di musica, all’estetica dei repertori siriani ed egiziani, in seguito ho sperimentato un percorso musicale nuovo con il gruppo Sabreen per 20 anni. Prendere le distanze (geografiche) da quell’area mi ha permesso di riconsiderare nuovamente questo patrimonio, trovando spazi nuovi in cui le mie melodie potessero crescere. Essere esposti e aperti ad apprezzare altre pratiche ed estetiche musicali in Europa è stato dunque fondamentale per tutto il mio percorso fino ad oggi.

Werner Hasler, tu provieni dalla musica contemporanea, dall’area dell’improvvisazione elvetica e hai collaborato con musicisti quali Julian Sartorius, Vincent Courtois, l’ex Mùm Gyda Valtýsdóttir e molti altri ancora. Come è avvenuto l’incontro con Kamilya e il suo mondo sonoro e l’idea di collaborare con lei è stata lunga e meditata o un colpo di fulmine?

Werner Hasler: Quando ci siamo visti per la prima volta abbiamo bevuto un caffè e conversando abbiamo deciso di approfondire, eravamo curiosi l’una dell’altro, ma l’idea non era subito orientata a un prodotto o a un progetto finalizzato. Abbiamo provato con le suggestioni, le idee prese dai nostri mondi, Kamilya con il testo “Ghareeba” del grande poeta libanese Gibran, io con la mia attrezzatura elettronica cominciando in modo molto lento, prelevando campioni da tutti i tipi di suoni che un oud poteva produrre. Dopo “Ghareeba” non sapevamo ancora esattamente come trovare altra musica, ma affidandoci alle possibilità create da questo incontro abbiamo approfondito il nostro comune desiderio di ricerca e il gusto per una musica originale lontano dal mainstream. La nostra collaborazione ha dato a entrambi molta libertà. Non avevo riferimenti o preconcetti sul lavoro di Kamilya nello stesso modo in cui avrei potuto averne per altra musica con cui avevo maggiore familiarità. Né Kamilya aveva riferimenti o pregiudizi sul mio mondo e il mio modo di pensare all’elettronica. Pertanto non siamo finiti contro il “what to do and what to do not” – “Cose da fare e da non fare” che si trova lungo la strada quando lavori con persone che possiedono lo stesso background musicale o sono nella medesima bolla. Il nostro desiderio comune per la ricerca e il gusto per una musica originale è – oltre alla nostra amicizia e a una comprensione musicale reciproca in perfetta sintonia – il nucleo centrale della nostra collaborazione.

Kamilya, tutti ti conoscono in Europa come una musicista tanto musicalmente sensibile quanto politicamente impegnata e abbiamo appena rivisto l’emozionante documentario del 2007 “Telling Strings” (regia di Anne-Marie Haller) in cui  raccontavi un viaggio importante verso casa, in cui cinque anni dopo il tuo trasferimento in Europa fai i conti con il tuo passato tornando nel villaggio in Galilea dove sei cresciuta, dialogando con i componenti della tua famiglia, tuo padre in-primis, con la (allora) nuova generazione di musicisti palestinesi e con la drammatica e inedita, per quel tempo, costruzione del Muro (lungo oltre 700 km) che divide i territori palestinesi dallo Stato di Israele; dunque inevitabilmente ci corre l’obbligo di farti una domanda su come tu interpreti i drammatici sviluppi della situazione attuale.

Kamilya Jubran: “Telling Strings” mirava a focalizzare la mia/nostra memoria, a far luce su un’area e una narrazione “oscure”, una sorta di “silenziamento”: il popolo palestinese che vive sotto il regime israeliano, uno Stato fondato nel 1948.
Nella narrazione predominante a livello internazionale quando si parla di palestinesi ci si riferisce ai palestinesi che vivono nei territori occupati da Israele nel 1967 (Cisgiordania, Striscia di Gaza), cioè tutte quelle persone, intere famiglie, che vivevano in precedenza entro i confini di Israele dichiarati nel 1948 e che furono obbligate ad evacuare, come d’altronde accadde anche alla popolazione, di origine siriana, che viveva sulle alture del Golan, occupate nella guerra del 1967 da Israele. Il recente, e purtroppo così violento e sanguinoso, evento a cui stiamo assistendo dal 7 ottobre scorso è, a mio avviso, l’ennesimo drammatico enorme segnale, che si aggiunge ai tanti altri allarmi precedenti: qui c’è qualcosa che non va, qualcosa che probabilmente prima funzionava, in un modo o nell’altro, ma che a causa di ulteriori circostanze storiche e politiche non funziona più; qualcosa che è obsoleto e necessita di un serio aggiornamento. Ciò a cui assistiamo dal 7 ottobre 2023 rivela o riporta alla luce una realtà che semplicemente è stata oscurata o coperta, intenzionalmente o meno, da Israele e da X potenze e dalle politiche coloniali dominanti in Medio-Oriente e in Europa.

Nel documentario si parla molto del senso di estraneità “doppio” che si prova ad essere Palestinesi con passaporto israeliano, passaporto che ti impedisce di viaggiare nei paesi arabi e ti rende comunque cittadino di serie B, discriminato nello Stato di Israele; tutto questo bagaglio di problemi e di incazzatura come lo riesci a tradurre, metabolizzare nella tua musica, nei tuoi testi?

Kamilya Jubran: Nel corso del tempo, i paesi vicini e i popoli che vivono attorno alla Palestina storica hanno iniziato a mostrare maggiore comprensione e ad ottenere maggiori informazioni sulla situazione dei palestinesi rimasti nelle loro terre, rispetto ai palestinesi che sono diventati rifugiati nei paesi vicini, vale a dire Giordania, Libano e Siria. La “posizione politica corretta” dell’epoca prevedeva che i palestinesi rimasti nelle loro terre (divenute Israele) continuassero a combattere, a resistere al regime sionista, e che infine un giorno anche tutti i rifugiati sarebbero tornati nelle loro terre, mentre nella realtà i palestinesi “fortunati” che “resistono” e rimangono in Israele testimoniano che le loro vite erano e sono fondamentalmente focalizzate su come adattarsi e come gestire questo trauma, questo nuovo regime oppressivo e spaventoso, ciascuno con i propri mezzi e capacità; nonostante il fatto di essere diventati alla fine “cittadini riconosciuti” in e di Israele, legalmente parlando. Una paradossale forma di fortuna rispetto all’essere massacrati o sradicati tout-court come è accaduto a decine di migliaia di palestinesi.

Per me, come per chiunque, la cultura e le arti forniscono (certo non esclusivamente) altri percorsi e mezzi di pensiero, possibilità di analisi ed espressione per interpretare la realtà.

L’identità culturale specifica dell’essere nati in terra di Galilea, culla di religioni e di una cultura, lingua e letteratura araba antichissima, ma oggi sigillata politicamente, rende ancor più necessario il tuo confrontarti con le culture laiche europee ma tu hai mai avuto speranza di uno scenario artistico/culturale non immerso in una condizione di guerra perenne?

Kamilya Jubran: Il progetto Sabreen, tra molti altri progetti e attività culturali locali, è stato/è un esempio di resistenza degli artisti a una situazione crudele e ingiusta ed è esattamente il caso di molti artisti che ancora vivono lì. Purtroppo la situazione politica, dal punto di vista macro, è sempre la stessa, nel senso che viviamo in una situazione di guerra continua da decenni; il che rende difficile per tutti immaginarne una contraria.

Per entrambi: riguardo l’uso del bellissimo arabo classico, di uno strumento come l’oud di Kamilya impiegato ad un modo quasi “blues” (il critico di “Folk Roots” cita i maestri del primo Blues del Delta per l’album Wa) tutto questo in simbiosi con l’elettronica e la tromba in puro stile contemporaneo di Werner! Direi che il segreto della magnifica musica che suonate è qui, ma quanto del processo creativo scaturisce suonando/improvvisando live e quanto invece è scritto, composto?

Kamilya Jubran: Non faccio musica classica araba, nonostante il fatto che la mia prima educazione musicale sia basata sulle culture e tradizioni arabe, come ho detto prima, e nonostante il fatto che suono uno strumento tradizionale come l’oud, non lo suono in modo tradizionale. Il fatto che canti in arabo d’altronde non significa che canti poesie classiche come da consuetudine.
Durante la collaborazione con Werner la modalità di suonare e comporre musica è cambiata ed è tuttora in costante processo di evoluzione. Potrei dire in movimento continuo da una musica molto scritta (come nell’album Wameedd) via via verso uno spazio ampio d’improvvisazione, raggiungendo infine la “forma” di composizione in tempo reale nell’ultimo Extend Wa.

Werner Hasler: Penso che da un punto di vista arabo l’uso della voce e dell’oud proposti da Kamilya siano assolutamente sorprendenti ed inediti. Percepire invece la nostra musica come fosse una sorta di mix tra musica araba esistente e quella contemporanea europea è un malinteso culturale che spesso percepiamo in un contesto di ascolto occidentale. Ci sono moltissimi riferimenti diversi che portano a quello che stiamo facendo ed ovviamente il nostro background musicale gioca un ruolo importante.
Una riflessione sul processo di realizzazione: se parliamo di musica scritta, nella tradizione occidentale parliamo di qualcosa riportato su uno spartito da un compositore che solitamente non è l’interprete. Comporre in termini occidentali è considerato un atto diverso da quello che stiamo facendo perché siamo creatori e interpreti allo stesso tempo. Il processo che porta a una creazione è diverso, e prevede sempre l’improvvisazione. La nostra musica è sempre stata sviluppata e poi fissata, in una certa misura, registrandola. La nostra musica ha sempre proposto un senso di libertà assoluta a differenza della musica scritta della tradizione classica occidentale, ed è importante ricordare che la musica classica araba si è fondamentalmente sviluppata come tradizione orale, anche se oggigiorno potrebbe essere scritta. La tradizione classica europea ha più o meno sradicato l’improvvisazione nella musica colta. L’improvvisazione europea nella musica colta è tornata solo attraverso il jazz, il blues e la musica sperimentale, per lo più americana e d’avanguardia. Dato che anche la musica elettronica non viene quasi mai scritta, sembra forse più chiaro che i termini “scritti” e “composti” debbano essere riconsiderati da una nuova prospettiva.

Il vostro ultimo disco insieme Wa è del 2019. Quando avremo ancora il piacere di ascoltare un nuovo album firmato Jubran/Hasler  e quali sono artisticamente i piani futuri?

Kamilya Jubran: Prima di tutto direi di visitare la pagina Vimeo di Werner, dove si trova un’evoluzione del progetto Wa, in quello che abbiamo chiamato Extend Wa, realizzato lo scorso anno, perché penso che registrare un nuovo album ci richiederà ancora un po’ di tempo…

Werner Hasler: Infatti! Extend Wa è per ora l’ultimo sviluppo! Per parte mia ho appena pubblicato con il violoncellista Carlo Niederhauser l’album “OUT Session” e sarò presto anche in concerto con il (grande!) batterista Jim Black per Discontinued Rhythm, i Boussole Animale (al piano preparato ci sarà Zwischen Welten) e infine con il Coro Kantorei di Berna e Zurigo. Dunque arrivederci ad Eupen per il Meakusma Festival.