JULIA HOLTER, Something In The Room She Moves
C’è ampio spazio nel nuovo album di Julia Holter, il suo sesto in assoluto e il quarto di fila per Domino, anzi: un incessante anelito verso lo spazio. La singer-songwriter e compositrice losangelina ha sempre fatto musica di ricerca, fondendola con l’art-pop, ma qui esplora le possibilità di un ulteriore margine di azione, personale ed espressivo. Il titolo Something In The Room She Moves proviene dai Beatles di “Something” e dalla Virginia Woolf di “A Room of One’s Own”.
Sembra di vederla mentre si allunga e accorcia all’interno delle sue composizioni, mai banale, mai meno che interessante in tutte le scelte effettuate a livello di armonie, arrangiamenti e produzione. In questo stretching di canzoni, il focus è proprio sul corpo, sul presente, sul momento. Bizzarro, dunque, che nel sound si opti invece per restituire una sensazione immateriale di fluidità. La traccia strumentale “Ocean” è programmatica in tal senso, un fondale marino ambient sul quale proiettare immagini di sé e riflettere di rimando sulle connessioni umane. Non a caso, Something In The Room She Moves è stato realizzato in un periodo contrassegnato dall’impegno nella crescita della prima figlia ed è dedicato al ricordo di un giovane nipote, deceduto, in un andirivieni tra vita e morte che a sua volta si collega alle innumerevoli forme dell’intimità, dall’abbraccio dell’amore allo scontro della battaglia, rappresentate in copertina dall’artista Christina Quarles.
Gli esperimenti sul canto all’unisono collettivo di “Meyou”, ideale estensione concettuale dell’esperienza nella sonorizzazione dal vivo di “The Passion of Joan of Arc” in compagnia del Chorus of Opera North, rammentano ciò che con le ugole aveva scolpito Björk nell’inarrivabile Medúlla. Si evoca il mondo sonoro interno del corpo, si evocano Linda Perhacs (con la quale Holter ha coronato il sogno di collaborare per il suo ritorno discografico degli anni Dieci), Robert Wyatt e Kate Bush, oppure la collega Lucrecia Dalt, con timbriche probabilmente maggiormente calde e policrome rispetto al passato. La crescita artistica, negli ambiti della forma-canzone più colta tra background d’accademia ed estro fuori dai canoni, è avvenuta passando dai riferimenti alla classicità greca dei primi due dischi alla svolta ispirata al vecchio musical “Gigi” di Loud City Song, proseguendo con la messa in gioco emotiva del più accessibile Have You In My Wilderness e le ardite eccentricità del complesso, precedente Aviary, dedicato alla cacofonia della mente in un mondo che si sta sciogliendo. Dalla mente al corpo.
Tutto scorre con la melodia della voce, con strumenti come basso fretless, tastiere Yamaha CS-60 e fiati, incluse cornamuse post-medievaleggianti, affidate al compagno Tashi Wada. Tutto è in evoluzione. Dalla dream psichedelia di “Sun Girl” al luminescente avant-jazz di “These Morning”, dai synthetici vortici ritmici della centrale “Spinning” – emblema della magia dello stesso atto creativo – al minimalismo atomico di “Materia”, dall’elettronica psicotropa che aleggia nella ballad notturna-materna “Evening Mood”, sino alle eleganti dissonanze di “Talking To The Whisper” e alla chiusura sentimentale di “Who Brings Me”. Una prima della classe di gran classe. Lo spazio che Holter si prende per scrivere è anche quello che ci attrae da ascoltatori.