JOZEF VAN WISSEM

jozef

Latina, Circolo H, 8 novembre 2016.

La musica di Jozef Van Wissem rappresenta uno straordinario collegamento fra epoche e stili diversi: è moderna e classica allo stesso tempo, barocca e minimale, straordinariamente tetra ma punteggiata qua e là di bagliori accecanti. Forse il paragone è già stato fatto – mi sorprenderebbe il contrario – ma quello che la musica dell’olandese, da anni residente a New York, richiama visivamente sono quei quadri del Caravaggio in cui squarci improvvisi di luce irrompono nelle tenebre per offrirci scene disarmanti. Prima del concerto provo a scambiare due parole con il musicista per capire qualcosa di più sulle origini della sua proposta musicale e sulla sua attività di compositore per il cinema.

Com’è nata la tua passione per uno strumento così particolare e per molti versi inusuale come il liuto?

Jozef Van Wissem: Quando ero molto piccolo, credo fosse all’età di dodici anni, prendevo lezioni di chitarra classica. All’epoca andavo a casa della mia insegnante di chitarra, lei aveva un liuto, messo lì in un angolo della stanza, ed ero affascinato dalla forma: lei non voleva mai suonarlo, però mi diede “Music from Shakespeare’s Time”, un libro di musica per liuto trasposta per chitarra classica, quindi già allora suonavo con la chitarra musica per liuto. In seguito ho iniziato a suonare la chitarra elettrica in gruppi noise, ma a un certo punto la cosa mi è venuta a noia e mi sono ricordato di questo strumento, dei pezzi che suonavo sulla chitarra ed ho pensato “forse sarebbe bello studiare liuto!”. E dopo essermi trasferito a New York ho cominciato a studiare.

Così suoni altri strumenti oltre al liuto…

Ho iniziato suonando la chitarra classica, vengo dalla chitarra, tuttavia a un certo punto l’ho messa via, ho smesso per quindici anni e ho cominciato a suonare esclusivamente il liuto.

Cos’ha di speciale, secondo te, il liuto rispetto ad altri strumenti?

Penso la connotazione storica e l’immaginario che suscita. Puoi solo immaginare come suonasse questo strumento quattrocento anni fa e il modo in cui abbia resistito al tempo, e adesso c’è la possibilità di scrivere qualcosa che non è stato detto quattrocento anni fa, qualcosa di legato alla contemporaneità. Puoi suonare qualcosa di aggiornato e allo stesso tempo suonare la storia. Penso che sia importante fare qualcosa di originale ma che allo stesso tempo sia legato alle tue radici, al posto da cui vieni, invece che limitarti ad imitare qualcosa di non tuo come – che ne so – il rock‘n’roll.

Quindi è uno strumento che ha una tradizione, radicato nei Paesi Bassi…

Certo, ma anche in Italia. Era uno strumento “pop”, molto popolare; ci sono canzoni per liuto che hanno viaggiato di paese in paese, venivano suonate con diversi nomi ma la melodia era la stessa, così puoi trovare facilmente una canzone nata in Inghilterra con parole italiane, un po’ come fosse musica pop. Del resto il liuto stesso è uno strumento che si presta bene a viaggiare: si poteva trasportare in groppa al cavallo, ecco perché era così popolare.

La tua musica abbraccia generi musicali diversi (barocco, minimalismo, rock, dark folk) e soprattutto penso metta d’accordo pubblici diversi: qual è il tuo background musicale?

Ho viaggiato sempre su un doppio binario: per farti un esempio, quando avevo sedici anni suonavo in una punk band chiamata “Mort Subite”, dal nome della birra belga, e allo stesso tempo suonavo pezzi di Vivaldi con la Limburg Symphony Orchestra (orchestra di base a Maastricht, la città natale di Van Wissem, ndr). Ho suonato fin dall’inizio musica classica, l’ho sempre fatto e lo faccio ancora; amo ancora entrambi i mondi, anche se possiamo dire che è il mondo classico a informare la mia musica, è ancora molto importante per me, vi trovo all’interno ancora moltissime fonti di ispirazione.

Ci sono musicisti in particolare che hanno influenzato il tuo modo di fare musica?

Quando ho cominciato a studiare liuto ho preso a collezionare molti dischi di liuto solista, specialmente in vinile; non c’era internet e tutta questa circolazione di informazioni, quindi cd e vinili di quel tipo hanno avuto veramente una grossa influenza su di me. Ma anche roba tipo Nurse With Wound, Coil… Bach ha avuto una grande influenza su di me, quando ero molto giovane, come pure Ry Cooder.

In parte hai già risposto a una domanda che mi ero preparato: è un po’ un pensiero comune, ed è anche il mio, il fatto che molti musicisti non amino collezionare dischi. Quanto spesso compri musica?

Ho smesso, adesso compro libri… A parte gli scherzi, compro ancora dischi, ne ho molti; se mi imbatto in un disco di liuto solista che non ho, lo compro immediatamente. Ho tanti dischi di musica per liuto…

Ricordi l’ultimo che hai acquistato?

Kreuzmusik, di questo tipo che ha collaborato con Joseph Beuys: Henning Christiansen, artista visivo oltre che musicista.

Il tuo primo disco conteneva delle riletture al contrario di partiture tradizionali per liuto e inoltre so che ti cimenti nella composizione di palindromi musicali: sono cose che in qualche maniera vengono dalla tradizione o sono tue invenzioni?

Fanno parte di una tradizione: Bach faceva cose di questo tipo chiamate “crablike movements”. A dire la verità io non le ho scoperte con Bach ma nel canto gregoriano dove, ad esempio, la prima voce eseguiva una melodia e la quarta eseguiva la stessa melodia al contrario: sono completamente affascinato da queste cose. Se trasportate nel campo della filosofia c’è il tema dell’eterno ritorno, le cose che vivono, muoiono e tornano indietro, c’è la mirror stage theory di Lacan, tutte cose per me estremamente interessanti.

Hai alle spalle più di 800 show in posti piccoli come questo e in grandi festival come l’ATP e il Primavera Sound: quale pensi sia la dimensione ideale per la tua musica?

Ho suonato nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Mosca, mi è capitata un’occasione simile in Ucraina: penso che le chiese siano la migliore ambientazione per la mia musica, perché le persone tendono a chiudere gli occhi mentre ascoltano, sono molto concentrate e lo fanno senza imbarazzo. Ci sono altre situazioni stimolanti dal punto di vista del suono, che so, nei club, in posti più piccoli dove puoi sperimentare bene con il feedback, il che è interessante per il liuto, ma nelle chiese si crea una situazione più naturale, specie quando trovi, ad esempio, posti con una forte eco, lì è molto bello suonare, il tutto funziona da amplificatore.

E qual è il posto più strano in cui hai suonato?

Una volta a Los Angeles, durante uno show si è verificato un terremoto, bello potente, se non ricordo male era un 5.1. Era in una sorta di circolo filosofico, un posto abbastanza strano dove, fra l’altro, si è sposato Bukowski: ma il fatto più singolare è che la gente è rimasta sul posto durante il terremoto e non è scappata via mentre suonavo.

Tu stesso curi un festival chiamato “New Music For Early Instruments”: puoi dirmi di più su questa iniziativa?

Sì, c’è anche un disco. L’idea è quella di liberare questi strumenti, come il liuto, da un cliché, di compiere un’operazione di aggiornamento: ad esempio ci sono strumenti tradizionali in combinazione con l’elettronica, liuti che accompagnano il cantato in giapponese di Keiji Haino, improvvisazioni con la lap steel. Alcuni strumenti ci sono pervenuti con un’immagine che è diventata una sorta di peso ed è meglio che si sbarazzino di tutto ciò, e questo festival rappresenta il mio tentativo in tale direzione. È una cosa che sta avendo abbastanza successo e sta finendo per somigliare a un piccolo movimento. Se ci pensi anche i musicisti classici oggi hanno molto più a che fare con la sperimentazione rispetto al passato: quando ho cominciato mi prendevano un po’ come lo scemo del villaggio, perché suonavo questa roba al contrario ed era una cosa un po’ inusuale agli occhi di una scena molto seria, accademica, noiosa. Togliere gli strumenti dai musei e renderli accessibili a più gente possibile: questa è la mia idea.

Sei conosciuto anche per aver composto diverse colonne sonore, fra cui quella di “Solo gli amanti sopravvivono” di Jim Jarmusch e, di recente, quella per il film di Domingo Garcia-Huidobro dei Fӧllakzoid. Qual è il tuo metodo di lavoro?

Quello che faccio non è scrivere sulle immagini: parlo con il regista e quindi gli consegno le musiche prima che cominci a girare il film, quindi in qualche maniera la musica contribuisce a dare forma alle immagini. Penso che questa sia una reale collaborazione altrimenti il tutto si riduce ad un reagire alle immagini, che va anche bene, ma è tutta un’altra cosa.

Ho letto inoltre che hai composto anche la musica di un videogame, The Sims Medieval: me ne parli?

Il capo-sviluppatore dei Sims, che stava lavorando a questo progetto, è venuto a un mio spettacolo, penso fosse lì con una trentina di persone; aveva l’idea di questo gioco, me ne ha parlato e mi ha chiesto se potevo sonorizzarlo con delle parti di liuto. Quindi il gioco è stato realizzato nei loro studi di San Francisco e io gli ho fornito una manciata di pezzi. Ho anche registrato le voci. Trovo fantastico che un sacco di gente abbia così la possibilità di ascoltarmi.

Hai utilizzato materiale preesistente o composto specificamente per il gioco?

Ho composto alcune cose originali e vi ho inserito alcune cose che già avevo: c’è stata completa libertà e non hanno scartato nulla di quello che ho proposto loro. Hanno detto che andava bene tutto, un’esperienza assurda…

Con la tua etichetta Incunabulum hai prodotto un disco di Maurizio Bianchi nel quale inoltre suoni: cosa conosci della musica italiana? Ci sono altri musicisti italiani che apprezzi particolarmente o che ami ascoltare?

C’è un sacco di musica italiana veramente forte. Che so, la prima cosa che mi viene in mente è il futurismo, Russolo, oppure c’è tanta new wave italiana poco conosciuta che è molto bella. Ti dirò una cosa che non mi piace della musica italiana: non mi piace la vostra musica classica, è troppo sdolcinata. Se metti a confronto la musica per liuto italiana e inglese dello stesso periodo, quella inglese è molto deprimente, malinconica, roba adatta ai suicidi, mentre quella italiana è sempre così allegra, infiorata: c’è sempre qualcosa che non mi piace in quel tipo di musica.

Stai lavorando a qualcosa di nuovo in questo periodo?

Sì, sto scrivendo la colonna sonora per un film, possiamo definirlo un western moderno, girato dal punto di vista dei nativi americani. Ci sto ancora lavorando, per ora ho scritto qualche brano. Inoltre sto lavorando al nuovo disco.

La sala del Circolo H è gremita per l’occasione e, devo dire, raramente mi è capitato di assistere a uno spettacolo così, in cui una sola persona e il suo strumento sono stati capaci di saturare lo spazio sonoro e catturare in maniera tanto forte l’attenzione dell’uditorio, peraltro alquanto variegato, per quasi un’ora. Più volte ho ceduto alla voglia, instillatami da Jozef stesso nell’intervista, di chiudere gli occhi: era tanto che non lo facevo durante un concerto ed è stato bellissimo.

Van Wissem suona da seduto, con lo sguardo imperturbabile; ogni tanto gli occhi puntano al cielo, verso la luce dell’unico riflettore acceso, in una posa che ricorda da vicino quei santi cristiani ritratti nell’atto di ricevere l’illuminazione divina. Lo strumento che porta con sé durante questo tour non è il suo celebre liuto nero dal collo di cigno ma un più semplice e, forse, pratico liuto barocco, amplificato attraverso un microfono a contatto e due direzionali, per dare vita ad un bellissimo suono, il cui riverbero non fa sentire la mancanza dei feedback innescati da Jarmusch. Del resto limitare il percorso artistico del liutista al sodalizio con il regista americano appare ingeneroso oltre che scorretto. Vengono eseguiti sia brani dell’ultimo disco (un lavoro molto ben riuscito che vede, fra l’altro, la presenza preziosa di Zola Jesus in due tracce) sia pezzi più vecchi, tratti dalla colonna sonora di “Solo gli amanti sopravvivono” e da quello che, a mio parere, rimane il punto più alto della collaborazione con Jarmusch, “Concerning The Entrance Into Eternity” del 2012. Van Wissem è tutt’altro che accademico dal punto di vista dello stile esecutivo: oltre a creare un continuum fra passato e presente, fra classico e moderno, con il ricorso all’uso del bottleneck tinge di blues un paio di brani e idealmente costruisce un ponte fra il vecchio ed il nuovo continente. In un paio di occasioni, poi, l’olandese si produce in linee vocali cupe e profonde che possono ricordare vagamente quelle di Nick Cave.

Come previsto, non c’è bis: la gente ne vorrebbe di più ma in sala torna la luce e Jozef può dedicarsi al banchetto del merchandising ed a scambiare quattro chiacchiere con chi vuole portarsi a casa un pezzo di un musicista a suo modo unico.