Non solo voce: Josin
Josin (Arabella Rauch) è una musicista e cantante per metà tedesca e per metà coreana, cresciuta in Germania. Figlia d’arte (più avanti vediamo), quest’anno ha sorpreso tutti con il suo album d’esordio, In The Blank Space. Josin scrive canzoni, che – come mi fa notare, a ragione – starebbero in piedi da sole, con quasi niente: mi racconta che il punto di partenza è quasi sempre il piano, poi arriva il resto, la costruzione di un sound, che, per dare un’idea, si trova vicino a quel genere che a fine anni Novanta chiamavamo indietronica, ma che ricorre anche agli archi e ad altri “classicismi”. Il fatto che abbia iniziato a collaborare con Ólafur Arnalds è meglio di qualunque spiegazione. Tutto calmo, intimista come le sue parole (in inglese, in questo è una precisazione necessaria), leggermente malinconico e quasi fragile. Inutile poi nascondersi dietro a un dito, c’è anche la sua voce: qualcuno sentirà in lei l’eco di Beth Gibbons, molti altri quello di Thom Yorke, anche perché nei pezzi c’è pure traccia delle loro rispettive band. Del resto, se siamo convinti che questi gruppi siano parte della storia della musica, non possiamo poi stupirci che ci sia qualcuno che da loro prende le mosse per fare “la sua cosa”. Ottimo pop per chi non si limita a sbirciare le prime cinque posizioni in classifica.
Josin sarà in Italia tra poche ore: il 6 settembre al Festival Internazionale “Isole che Parlano” (Palau, Sardegna), il 7 a Paesaggi Sonori (Calascio, Abruzzo), l’8 a Terlizzi (BA) presso il MAT e infine, il giorno dopo, dai nostri amici del Klang a Roma. A Terlizzi e a Roma co-organizza Son Of Marketing per festeggiare i suoi dieci anni di esistenza. Auguri, Son Of Marketing.
Il tuo primo full length è uscito lo scorso gennaio, se non erro. Come vanno le cose? La gente lo ha apprezzato? Sembra di sì. Quali erano le tue aspettative?
Josin: Ho imparato a non avere aspettative quando si tratta di musica. Crearla e metterla là fuori, nel mondo, è qualcosa con degli aspetti molto imprevedibili. La musica è qualcosa di così personale (forse troppo) che tu senti il bisogno di impararla perché devi farla, non perché vuoi qualcosa in cambio. Ovviamente, però, sono molto felice di come la gente e i blog stanno accogliendo il mio disco!
Partiamo dall’inizio. Come sei entrata in contatto con MVKA? Non conosco quest’etichetta, ma pubblicano Zeal & Ardor, uno dei progetti più originali degli ultimi anni…
Sì, lui (Manuel Gagneux, mente di Zeal & Ardor, ndr) è unico! Sono entrata in contatto con MVKA tramite il mio management, dopo aver pubblicato il mio primo ep, Epilogue. Da lì sono entrati in gioco e abbiamo deciso di far le cose insieme a Dumont Dumont (etichetta che ha dato alle stampe Epilogue, ndr) per il primo mio album.
A volte, quando si parla di dischi, le copertine migliori sono quelle semplici, ad esempio quelle che ritraggono l’artista. Perché questa scelta classica? Sembra legata ai testi, perché tu parli di cose personali.
Sentivo fosse la scelta più onesta per il mio primo album. È il risultato dei miei ultimi dieci anni. Tutta la mia esperienza musicale, tutti i miei errori, tutte le canzoni brutte che ho scritto portano a questo disco, e dentro c’è anche la mia vita, in qualche modo. È stato anche un percorso molto solitario, molto focalizzato. L’ho voluto io così: produrre, scrivere, registrare tutto da sola. Però da ora le cose possono evolversi ulteriormente, sto cercando collaborazioni con altre persone e di vedere tutto questo con più “leggerezza”.
Tutti nominano i tuoi genitori (entrambi cantanti d’opera) nelle loro recensioni di In The Blank Space. Io invece vorrei sapere se hai suonato/cantato in una band quando eri teenager.
Vero. Non ho mai avuto band prima. È un sogno giovanile che deve ancora realizzarsi.
Nelle stesse, pigre recensioni, tutti – sempre pigramente – parlano di Radiohead/Thom Yorke. Non mi piace questo gioco, ma potrei aggiungere: certe band indipendenti tedesche che suonano elettronica (Lali Puna, e non solo per il nesso coreano, Notwist…), Beth Gibbons e gli ultimi Portishead (un pezzo come “Once Apart”), Anthony And The Johnsons (una canzone meravigliosa e commovente come “In The Blank Space” inizia con la stessa melodia di “Cut The World”)… Con ogni probabilità hai solo ascoltato un po’ del miglior pop in giro quando crescevi e… indovina? Ti ha influenzato, forse anche in modo inconscio. Ti lusingano tutti questi paragoni illustri oppure ti infastidiscono?
Wow, hai fatto le tue ricerche. Sono colpita! I miei anni formativi in effetti non includono solo i Radiohead e sì, amo Lali Puna, Notwist, Portishead ed Anthony And The Johnsons. Non mi infastidiscono i paragoni. Ci resto un po’ male quando vengo ridotta a cantante e la gente non sta attenta alla musica o alla produzione. Preferisco la produzione e la scrittura al cantare, che è solo un completamento… E ovviamente tutto quello che ho ascoltato in passato mi ha ispirato in un modo o nell’altro. Specie le cose davvero buone, quelle che non puoi scacciare dalla testa.
In varie interviste, Nick Cave dice che ha un “ufficio” e che lavora alla sua roba come un impiegato (giornalmente, dalla mattina presto fino alle 17): è una piccola stanza con un piano e quasi nient’altro. Cominci a creare le tue canzoni partendo dal piano? O può essere un beat, un sample o qualcos’altro?
Sì, ci provo. Quando è l’ora di scrivere canzoni, mi forzo a finirle su di uno strumento reale, principalmente il piano. Le canzoni migliori per me sono quelle che “sopravvivono” anche senza alcuna produzione. Solo quando mi areno con un’idea accendo il computer e tento di risolvere il problema con un beat o con un sound. Vedo se conduce la mia ispirazione altrove, anziché lasciarla ore e ore su di una sedia scomoda davanti a un piano e a un muro bianco.
Sempre a proposito di piano… sembra che tu stia collaborando con Ólafur Arnalds. Che cosa stai imparando da lui?
Stiamo lavorando su alcune idee. Fa ridere, ma ho imparato da lui ciò che negavo nella risposta che ti ho dato prima: abbiamo discusso molto e Oli è convinto che un pezzo abbia bisogno anche di produzione. E che questa produzione sia una parte di un buon pezzo. Sto ricominciando sempre più a incorporare suoni e arrangiamenti già in una prima fase della scrittura.
Ho iniziato quest’intervista chiedendoti come andassero le cose col tuo debutto sulla lunga distanza: ciò che è certo è che sei stata in tour (non è alla portata di tutti) e a brevissimo sarai in Italia. Quanta gente sarà con te sul palco? O tenterai di gestire tutto da sola?
Sarò da sola, questo è come minimo il piano per quest’anno. Volevo formare una band, ma richiede un sacco di lavoro e non ho avuto il tempo. Inoltre i miei show in Italia e poi nel resto d’Europa saranno i primi in veste di headliner, quindi in qualche modo voglio che la gente assaggi il mio progetto in una situazione faccia a faccia. Per me così è tutto più personale e ogni volta che salgo sul palco penso “come ce la farò da sola?”, ma sono grata per questi momenti intimi e sto imparando molto dall’avere tutto sulle mie spalle. Quando dividerò la ribalta con altre persone sarà davvero confortante per me!