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JOSHUA SABIN, Sutarti

JOSHUA SABIN, SutartiSe ci seguite, di Joshua Sabin sapete già tutto e siete anche al corrente dell’uscita di questo Sutarti. Come FIS nel disco con Rob Thorne, per rimanere sul catalogo Subtext, Joshua questa volta ha avuto bisogno della tradizione (lituana) come punto di partenza per le sue manipolazioni digitali. Come molti “producer” contemporanei, è attratto dalla voce (le sutartine, particolari canti femminili, sempre lituani), forse perché è lo strumento più personale e difficile da duplicare. Sono due paradossi che potrebbero generare bei racconti, dato che quando arrivi al massimo della tecnologia ti trovi ad aver comunque bisogno di cose che esistono da sempre e in alcuni casi erano archiviate in modo quasi definitivo. Questa, del resto, è l’epoca in cui puoi creare ologrammi e decidi di usarli per mettere Tupac sul palco del Coachella, ma per fortuna Sabin non è così banale e ottiene risultati molto più suggestivi e – per proseguire il paradosso – pieni di umanità, processando il suono di alcuni strumenti appartenenti alla storia musicale dei paesi baltici (una specie di flauto di Pan, una specie di violino e direi delle percussioni non meglio specificate), espandendolo, amplificandolo e incorporandolo in tracce potenti, a un passo dallo squarciare le casse dello stereo (vedi appunto l’estetica di Fis, Jebanasam, Emptyset, tutti artisti che stanno portando in nuove direzioni la cultura del sound system). L’ascolto prosegue ed entrano in scena anche le famose voci, quasi trasfigurate, che staccano letteralmente tutto da terra, seguendo un percorso ascensionale che difficilmente non emozionerà. Questa, però, non è l’unica soluzione utilizzata nel disco: “Sutarti IV” ad esempio, sembra andare alla ricerca del lato oscuro e ritualistico di questo folklore.

Il primo album di Joshua era ok, ma non avrei potuto mai immaginare un successore così bello.