JOSHUA SABIN
Non sono ruffiano quando qui mi complimento con Joshua perché è finito su un’etichetta così interessante come la Subtext. Ditemi voi quante volte avete sentito nomi come Roly Porter, Emptyset e Paul Jebanasam negli ultimi due annetti. Tutta gente che lavora assieme, su più livelli, sotterranei e non. Tutti passati per questa record label, che è proprietà di uno di loro. E che sa fare anche il talent scout, ecco perché ho fatto quattro chiacchiere con questo (presumo) giovanissimo scozzese.
Correggimi se sbaglio, ma sei anche un field recordist. Il nostro sito segue le iniziative dell’Archivio Italiano Paesaggi Sonori. Stanno creando una mappa sonora delle città italiane. Come hai scoperto e imparato queste tecniche?
Joshua Sabin: Penso che se giudichi le mie attività basandoti su quest’album, mi puoi chiamare field recordist, ma non mi metterei tra quelli che si specializzano in quest’arte. Sono finito a fare field recording per caso, mosso da curiosità e desiderio di catturare artefatti sonori viventi delle mie esperienze di viaggio nel mondo. Trovo il field recording concettualmente molto interessante, dalle rappresentazioni multi-microfono iper-realistiche degli ambienti sonici alle catture audio più spontanee e grezze, c’è uno spettro di scelte curatoriali che in ciascun caso si porta dietro un focus e una narrativa di qualche tipo. Credo forse di aver scelto la seconda tipologia di registrazioni, una cattura stereo abbastanza decente dell’ambiente circostante che mi permetta di chiudere gli occhi e ricordare un’immagine o una scena, questo è sufficiente per me. O almeno questo è quello che mi basta per il disco, dato che si tratta di un punto di partenza concettuale e dato che poi la fedeltà iniziale non conta, visto il numero di lavorazioni a cui sarà soggetto quest’audio.
Suppongo tu sia affascinato dalle stazioni, dagli aeroporti e così via. Nel nostro mondo, quando viaggi, qualche volta è difficile ricordare dove sei, perché ci sono posti senza identità locale. Una volta un insegnante mi ha spiegato che un termine inglese esiste per questo ed è “placelessness”. Hai mai provato questa sensazione? Ti piace viaggiare?
Mi piace decisamente viaggiare, non conosco nessuno a cui non piaccia, per essere onesti. Di sicuro ho provato la “placelessness”, così come l’ha definita il tuo insegnante. Ricordo vividamente di essere arrivato a Osaka, era la mia prima volta in Giappone e avevo preso due voli, un bullet-train e un paio di metropolitane, riposato zero e assolutamente desolato. Jet lag e mancanza di sonno hanno avuto un ruolo in tutto questo, ma all’inizio mi sentivo completamente passivo nei confronti di tutto, ero in Giappone finalmente, agli antipodi di casa mia, ma avrei potuto essere ovunque e la “specialità” era stata tolta da tutto ciò che mi circondava. Una buona dormita e questa dislocazione è tornata in vita in modo diverso, ho sentito un’esplosione di interesse, la mia percezione era completamente cambiata. Adoro questi cambiamenti radicali nel pensiero che il viaggiare forza in te.
Come sei entrato in contatto con le persone di Subtext Recordings? In questo momento Subtext Recordings è una delle etichette da seguire, se vuoi capire cosa succede adesso nella musica elettronica.
Anche se non avevo legami con la Subtext, quando all’inizio sono entrato in contatto ovviamente sapevo bene che cosa facevano e la pensavo proprio come te riguardo la loro influenza e l’unicità delle loro proposte. Ho contattato Subtext fornendo un po’ di informazioni su di me e un link all’album, quasi completamente finito all’epoca, e in un paio di giorni e un paio di conversazioni eravamo molto ben disposti a lavorare insieme per un disco, e naturalmente questo per un artista al debutto era piuttosto irreale. Le persone alla Subtext sono diverse dagli altri gruppi con cui ho avuto a che fare, dal primo giorno ho visto un illimitato quantitativo di supporto e amore, non solo per il mio lavoro, ma per tutto ciò che fanno. Fra poco Ellen Arkbro pubblicherà un disco fantastico, tutti lo devono sentire!
Vorrei sapere che ne pensi di Continuum di Paul Jebanasam. Trovo alcune somiglianze tra te e Paul.
Onestamente Paul ha creato qualcosa di speciale con Continuum, è un lavoro tanto emozionante e io mi prendo il tempo per ascoltarlo e riascoltarlo. È interessante (leggi: gratificante!) che tu trovi paralleli tra i nostri lavori, l’uso del “rubato” se vogliamo, che rappresenta una grossa parte del come io apprezzo la musica ed è fondamentale per il mio processo compositivo, e il lavoro di Paul in Continuum fluisce temporalmente in un modo molto personale e a cui ci si può relazionare. Combina questo con tutte le altre cose che quel disco realizza e ci troviamo al 100% nel territorio del “vorrei averlo fatto io”.
Questa nuova domanda è parte del mio tentativo di capire meglio cosa sta succedendo nella scena elettronica inglese. Consideri il dub e la cultura del sound system come un’influenza?
Non ne sono sicuro, probabilmente in modo non diretto. Sono grande fan delle figure principali del dub (Lee Scratch Perry, King Dubby…), li ho ascoltati per tanto tempo e amo gli spazi sonici che creano. Mi ispira decisamente l’equilibrio tra libertà e sperimentazione nel loro lavoro, combinato a un controllo grezzo eppure magistrale della produzione.
La tua musica evoca immagini. E forse fare live la tua musica richiede visuals per catturare gli spettatori. Stai lavorando all’aspetto visivo dei tuoi show? Suonerai a qualche festival nei prossimi mesi?
I visuals non sono necessari se vuoi portare al pubblico solamente musica o suono. I lavori audiovisivi sono molto diversi, penso ci debba essere una relazione di reciprocità tra suono e immagini in queste situazioni, il che richiede stretta collaborazione. Se dovessi aggiungere l’elemento visivo ai miei lavori, le cose dovrebbero andare così. I nostri cervelli cercano causalità tra ciò che vediamo e sentiamo (percettivamente favorendo il primo senso), il che rende semplice lanciare uno stimolo visivo e semplicemente suonarci intorno. Ci sono giocoforza contesti dove questo funziona incredibilmente bene, ma per quanto mi riguarda sento di aver bisogno di trovare un vero amico e collaboratore per introdurre una componente visiva. Di sicuro suonerò in giro per l’Europa quest’anno, la performance live sarà qualcosa di nuovo per me, ma sono entusiasta di esplorarla e renderla mia.
Ultima domanda. Vedo che sei di Leith. Sto cercando di leggere “Skagboys” di Irvine Welsh da almeno l’altr’anno, ma non trovo mai il tempo per finirlo. Riconosci il luogo dove vivi da quel libro? Considera che sono italiano e che quello di Welsh per me è l’unico sguardo possibile su Leith.
Mi spiace sabotarti, ma per mia colpa non ho mai letto niente di Irvine Welsh! In ogni caso ho vissuto a Leith tutta la mia vita e ho sempre sentito una certa distanza da Edimburgo come città. È cambiata radicalmente da quando sono nato e quindi per certi versi si è ripulita se la paragoniamo al suo ritratto nei lavori “semi-fictional” di Welsh. Amo Edimburgo ma ci sono davvero un atteggiamento differente e un umorismo differente in Leith, sono sicuro che la cosa durerà anche in futuro.