JONI VOID, Everyday Is The Song
Everyday Is The Song, il terzo disco su Constellation di Joni Void, viene da lui stesso definito “Tape Vortex / Musique Vérité / Memory collage”. Niente di più vero.
Quanto sia importante che le intenzioni di chi registra un disco rimangano limpide nel risultato finale – e comprensibili per un qualsiasi ascoltatore casuale – è un tema che toglie il sonno a qualunque artista ed è un dramma che io e gli altri ascoltatori di cose complicate conosciamo molto bene. In questo senso, Joni Void è una garanzia già dalle sue precedenti uscite.
La spina dorsale di questo nuovo lavoro è una serie di registrazioni d’ambiente, alcune fatte con un walkman durante le camminate o nei percorsi in bicicletta e in skateboard, altre raccolte nei salotti e nelle stazioni dei bus e dei treni, altre ancora catturate dal finestrino di una macchina. “Musique Vérité”, quindi, ma anche vortice, collage di ricordi, viaggio elettroacustico che racconta le relazioni con (e fra) i luoghi più che quelle con le persone e, di conseguenza, la relazione di tutti noi, del mondo fisico, con lo scorrere del tempo.
La dimensione percettiva dello stendersi e dell’accartocciarsi di ogni istante delle nostre vite si riflette, durante l’ascolto di Everyday Is The Song, nello stirarsi e accorciarsi dei frammenti audio. Questi infatti appaiono, scompaiono e girano in tondo, abitano i pezzi e danno loro profondità, rendendosi sempre più riconoscibili a ogni passaggio. Così succede in “Still-Life”, dove la chitarra emerge dalle voci per svuotamento improvviso e va a sciogliersi nel glitch di un finale che sembrerebbe slegato dal resto, ma è in realtà il ponte ideale verso il pezzo successivo, o in “Vortex Any % Speedrun”, dove voci, batterie furiose e miagolii sembrano correre sulla pista di un velodromo affiorando e tornando in profondità a ogni giro. Nella nebbia eterea di “Non-Locality”, lo stesso loop fluttua invece sporcandosi fino a sgranarsi in un fiume di parole distorte, e la sensazione è quella di una progressiva rarefazione dell’atmosfera, di uno sfibrarsi del mondo circostante. Tutto questo succede senza che la scrittura risulti mai pesante o artificiosa, mentre i field recordings e le voci ci trainano da un brano all’altro come se fossero un filo invisibile, in un viaggio attraverso un album che sarebbe da vivere per intero, soli, con davanti una intera serata per pensare. Forse tutta la musica andrebbe ascoltata in questo modo, ma ancora di più questo tipo di lavori che per emergere all’ascolto, oltre che per emozionare, necessitano contemporaneamente di attenzione dedicata e di una certa predisposizione a vagare col pensiero. Fatevi un favore, dedicategli del tempo di qualità.