JON MUELLER, Canto
Jon Mueller, percussionista, ha pubblicato da solo e in compagnia una quantità immane di dischi, anche per etichette che apprezzo, ad esempio Type, Utech, Gizeh e ovviamente Sige. Come si può già ipotizzare solo basandosi su questi nomi, il modo che ha di suonare le percussioni lo avvicina all’ambient e a tutta quella serie di “batteristi aumentati” dei quali finiamo per parlare spesso negli ultimi anni. Il problema finora era che non aveva fatto una traccia che mi smuovesse. Ci sono locali dove vai spesso e che hanno due o tre clienti che ti stanno sul cazzo, magari d’istinto, e lo stesso discorso vale per i generi musicali che ascolti. Si sa, è periodo di minimalismi e Jon, che da anni ha un approccio riduzionista e che ha collaborato con monumenti come Chatham (ad esempio), oltre a utilizzare gong e percussioni, qui si serve di tecniche vocali che ha appreso da LaMonte Young e Marian Zazeela, dai quali ha studiato di recente anche Ellen Arkbro, per restare nello stesso ambito. Insomma, i discorsi legati all’attualità sono due: l’ennesimo recupero di un’avanguardia degli anni Sessanta ormai codificatissima e probabilmente la convinzione che – nell’epoca di Ableton e di intelligenze artificiali che imparano a fare dischi – la propria voce sia l’unica cosa inimitabile e umana rimasta. Quest’ultima, in realtà, è più una mia ipotesi, forse un giorno riuscirò a verificarla.
“Oil” (olio combustibile, logicamente), “Wick” (stoppino) e “Flame” (fiamma): questi i titoli delle tre tracce di Canto (scritto proprio in italiano), dunque riferimenti a una lampada e al suo significato religioso/rituale. In effetti l’atmosfera è solenne e mistica, il gong vibra ipnotizzante nella prima traccia e si trasforma in un mare appena increspato dalle onde nel quale smarrire se stessi, diventando un tutt’uno con l’acqua, poi nel secondo episodio tocca alla voce farsi drone, anche qui a pochi passi dalla trasfigurazione in qualcos’altro (sembra lo stesso procedimento di ricerca di un continuum quasi astratto adottato da Niblock nelle sue collaborazioni con Joseph Celli, un paragone che appunto ho tirato fuori anche nel caso di Arkbro). Si chiude con un episodio che pare riprendere in chiave funeraria il primo, ma entra in scena la pulsazione cardiaca di un tamburo a differenziarlo (rimane l’aura sacrale del tutto). Nel suo essere estremamente elementare, Canto è in grado di accompagnarti lungo un viaggio nell’Aldilà. Sullo scaffale lo vedrei bene al fianco dei dischi recenti di Van Gulick, Weis e Aquarius, oltre che a quelli di Z’EV.