John Duncan, Deison e John Duncan, Pilia e John Duncan
Abbiamo già parlato moltissimo di Stefano Pilia e Cristiano Deison, molto meno di John Duncan, un artista totale, attivo da un’infinità di anni, che ha vissuto un pezzo della sua esistenza in Friuli prima e nei dintorni di Bologna poi, conosciuto dagli appassionati di musiche altre per il suo utilizzo della radio a onde corte come strumento.
Partiamo dalla collaborazione Deison/Duncan, perché uscita nel 2020. I due si conoscono da molto tempo (Deison e Hybrida non potevano non organizzargli eventi intorno…), ma Chimeratorium è la prima cosa su cui hanno messo mano insieme. All’inizio abbiamo “Dream Evolution”, che è a nome di Deison ed è il suo classico dipanare pochi elementi quasi diafani, alla fine abbiamo “Portal”, costruita da entrambi, che è quanto di più inquietante ho ascoltato in lockdown: anche in questo caso vorrei sottolineare come l’effetto sia ottenuto con apparentemente pochissimo materiale. A firma del solo Duncan c’è una versione alternativa di “Everyone”, un pezzo di Soft Eyes, uscito quest’anno per iDEAL, un disco solista (con ospiti) dell’americano “anche di canzoni”, con soluzioni ritmiche efficacissime e coinvolgenti, per quanto nient’affatto scontate, e atmosfere stranianti, come prevedibile da uno che è stato per etichette come Touch o Trente Oiseaux, per tacere delle sue collaborazioni. Non si è scritto molto di quest’album: qualcuno ha ovviamente tirato fuori Scott Walker (voce particolare/intrigante/suadente più musica “sperimentale”), ma allora io metto sul tavolo i Coil di Musick To Play In The Dark (voce particolare/intrigante/suadente, milieu elettronico/sperimentale, ritmiche non lineari…) e a quel punto facciamo valere tutto. Nell’ultima traccia di Soft Eyes c’è Stefano Pilia, che ha poi tessuto le trame di Try Again – anche questo un oggetto molto poco descrivibile – alle quali si aggiunge una sorta di recitato di Duncan: Pilia, come si sa, è chitarrista, ma – un po’ come nel caso del suo amico Massimo Pupillo – con gli anni si è aperto da solo una seconda strada creativa, sperimentando con effetti et similia: qualunque sorgente sonora qui è filtrata, allungata o polverizzata a seconda dell’ispirazione, così da creare un mondo alternativo e per molti versi soprannaturale. Il carattere “ascensionale” (anche grazie all’inserimento di un coro ecclesiastico “trasfigurato”) della title-track ha sicuramente ispirato la copertina cosmonautica del disco, ma anche la conclusiva “Fare Forward”, più meditativa e distesa, deve aver influito.