JOHN BUTCHER, 15/2/2015
Forlì, Area Sismica. Foto © Ariele Monti.
L’indeciso inverno romagnolo viene scosso dalla notizia dell’unica data italiana di John Butcher all’Area Sismica. Il polisassofonista inglese arriva con un più che raro set solista nella provincia forlivese, e nella migliore delle situazioni possibili. Organizzo il fine settimana insieme al caro Nicola, col quale conquistiamo la modesta vetta del Monte Falterona. Alla fine della nostra discesa ci attende un concerto perfetto per una domenica pomeriggio post-trekking: stimolante, concreto e sperimentale. Il locale, situato alle pendici di Ravaldino in Monte nel mezzo della campagna, è il luogo perfetto per l’occasione, con un’esperienza alle spalle che vanta nomi che citare parrebbe pedissequo. All’entrata c’è un tavolo con in vendita una serie di album appartenenti alla vasta discografia del musicista, io m’incammino verso la stanza dove si svolgerà il live, poso la giacca al guardaroba, mi fermo al bancone e mi accomodo in attesa dell’inizio. John Butcher è ormai diventato un’icona del jazz sperimentale e dell’improvvisazione contaminata, i suoi studi sono talmente ampi da potersi definire vere e proprie ricerche all’interno di più sfaccettature di questo genere: in particolare è molto interessante la sua propensione all’elettroacustica. Oggi la rivendicherà in più versioni e l’accosterà a molte parti del percorso musicale che ha compiuto negli anni. Dedica il primo dei quattro set al sax tenore: comincia con un approccio più classico allo strumento, un free jazz abbastanza scorrevole (come sono d’altronde gli albori di Butcher), ma poco dopo ecco che ha inizio la respirazione circolare e lo sprigionamento di quel vorticoso ritorno di un timbro sempre più squillante. Butcher è energetico, vuole far sentire il sassofono in quanto tale e sa che per farlo non basta il metodo convenzionale. Sono molte le pause, necessarie a far digerire e agglomerare tutte le schegge che intaglia. Infatti dedica solo una parte della performance al suono emesso dal tenore, l’interesse sta anche nell’esplorazione dell’oggetto: i feedback che il microfono produce se posto al suo interno e il fruscio dell’aria che scorre nell’organismo sono tutti tasselli fondamentali del concerto, che in più tratti vengono riproposti e che, anzi, diventano protagonisti. La dualità che si genera quando viene scelto il soprano aiuta a capire meglio e approfondire i temi, soprattutto contemporanei, di Butcher. Tramite questo strumento sale ad un ulteriore livello il setaccio dei suoni, si raggiungono frequenze altissime, degne dei più estremi minimalisti, e si oscilla verso l’utilizzo percussivo del sax, tramite i suoi tasti e le relazioni che si possono creare con il microfono nel momento in cui con esso si sfiora e si scontra. Quello di Butcher è un rapporto eidetico col suo ferro del mestiere: ne analizza le forme, i contorni, le superfici, ne fa il proprio apparato di esperienza. Altri due set: uno di questi è un attesissimo bis con il soprano, effimero e vaporoso, con note nascoste nell’aria, spinte fuori tramite degli slap potenti e cadenzati o melodie sussurrate, giocate fra il fiato e l’elettroacustica.
John Butcher ha dato spazio alla vera improvvisazione e ha regalato momenti di intensità in ognuna delle molteplici proposte, un livello sempre alto ha caratterizzato i diversi generi ai quali si è aggrappato, tanto da convincere l’intero pubblico a donargli un lungo applauso. Appena ha terminato, Butcher si è complimentato con il fonico per l’ottimo lavoro nella resa dei feedback, mentre l’Area Sismica offriva a tutti una buonissima pasta, confermandosi anche questa volta accogliente.