Joe McPhee: la storia suona sempre (almeno) due volte
Joe McPhee, nato in Florida quasi 80 anni fa, è un polistrumentista per il quale la definizione “leggenda vivente” non deve suonare iperbolica. Instancabile, onnivoro, curioso, aperto, lo abbiamo visto l’estate scorsa confrontarsi con i Talibam! e poi guidare la dream band A Pride Of Lions. Una storia artistica che è vivida testimonianza di cosa sia il jazz davvero libero: ho avuto il piacere e l’onore di poter fare una chiacchierata con lui, eccola. Ci sono nomi da far tremare i polsi, storia e mitologia della musica, ed un interessante racconto su una porta a cui bussò diverse volte un tipo niente male. Se poi aggiungete che, per pura serendipità, questo mese il nostro è in copertina su The Wire e che siamo gli unici in Italia a quanto mi risulta ad averlo intercettato (l’intervista si è tenuta a settembre nel corso dell’edizione 2018 del festival Ai Confini tra Sardegna e Jazz), la gioia, da appassionati prima di ogni altra cosa, è grande. Le foto di JoeMcPhee a Sant’Anna Arresi sono di Emiliano Cocco (Instagram), che ringraziamo moltissimo.
Inizierei chiedendole qual è stato il sentiero che l’ha portata a collaborare con musicisti come Talibam!, che si suppone siano molto lontani, o comunque di certo non vicini, dal suo mondo.
Joe McPhee: In realtà non è così differente, perché suono con musicisti elettronici e noise da molto tempo. Ho cominciato nel 1973 con John Sneyder che suonava il synth, e questo è avvenuto per curiosità mia. Nel 1975 sono andato a sentire una serata con Robert Moog, poi Sneyder comprò un ARP 2600 e facemmo un tour, suonammo a Willisau in Svizzera, incidendo lì ed in altre occasioni. Più recentemente ho collaborato con il sound artist Graham Lambkin, mi piacciono tutti i tipi di suoni, organizzarli. Mi piacciono i suoni delle metropolitane, le rane, gli uccelli, cose così. Creare storie con quei suoni.
Che tipo di ascoltatore è? È curioso, ha tempo di ascoltare musica, o resta soprattutto concentrato sulla sua musica?
Non ascolto affatto la mia musica a dire il vero, la suono e basta. Ascolto ogni tipo di musica. Mio nipote è un rapper, ha rifatto un mio pezzo, “Nation Time” (dal disco omonimo del 1970, recentemente ristampato da Superior Viaduct, ndr), e mi piace parecchio. Faremo insieme un progetto, “Nation Time For Real Time”, influenzato dalla politica del nostro tempo e dal nostro presidente, che è un disastro.
Come vede il cambiamento, per alcuni decisamente inaspettato, tra un presidente come Obama ed uno come Trump?
Lo ritengo un cambiamento interessante, ma quanto è emerso nel nostro Paese con la vittoria di Trump in realtà sotto la superficie c’è sempre stato, lui l’ha solo portato alla luce del sole. Vedi, per gente come lui e Bannon e tutti quelli della white supremacy Obama era troppo, decisamente troppo. Dai tempi di Malcom X e Marthin Luther King diverse cose sono ovviamente cambiate ma altre sono rimaste proprio com’erano. Non abbiamo ancora fatto i conti per davvero con la nostra storia come popolo americano, c’è un’onda di destra che si sta muovendo dappertutto, anche in Europa, verso il fascismo, e sembra che nessuno sembri capire la storia, e faccio riferimento anche alla situazione italiana. Perché puntiamo il dito contro le persone invece che cercare di risolvere i loro problemi? Perché accade tutto questo? Comunque, la musica è parte di tutto questo, ma non è tutto. Se perdiamo la musica, perdiamo la nostra anima, ed allora cosa faremo?
Informazione non è conoscenza, conoscenza non è saggezza, saggezza non è verità, verità non è amore, amore non è musica: questa frase di Frank Zappa resta centrale per me.
Albert Ayler invece diceva che la musica è la forza guaritrice dell’universo (Music Is The Healing Force Of The Universe è un disco leggendario del 1969, ndr). Non ho mai incontrato Ayler, ma lui è la ragione per cui ho iniziato a suonare il sassofono. Ho cominciato con la tromba a otto anni perché mio padre era un trombettista, suonava musica classica, marce. Fino ai ventotto ho suonato solo la tromba, a scuola, poi nell’esercito, in Germania, suonavamo dalle otto di mattina alle cinque di pomeriggio tutti i giorni con i migliori strumenti e nel miglior ambiente, e quello è stato decisivo per me. Anche Ayler era in Europa in quel periodo con Don Cherry ma non ci incontrammo mai. Così quando tornai a casa andai in un negozio di dischi a New York e trovai Bells di Ayler. Una voce dietro le mie spalle mi disse: “Cosa ne pensi di questo disco?” Ed io: “Non ne so nulla, ma non vedo l’ora di ascoltarlo”. “Oh, quello è mio fratello, sai? Io sono un trombettista (Donald Ayler, ndr)”. “Lo sono anche io!”. E allora lui disse: “Abbiamo prove stasera, perché non vieni da noi?”. Non potei andare perché non avevo la mia tromba e non vivevo a New York , e così anche quella volta lo mancai. Ad ogni modo, successivamente lavorai in una fabbrica per molti anni; ci fu un lungo sciopero e io non avevo nulla da fare, così comprai un sax tenore da un mio amico e dopo due giorni andai ad un jazz club dove si tenevano delle jam. Mi mandarono via, mi dissero anche di non tornare più. Poi comprai un libro sulle tecniche del sassofono (sapevo già leggere la musica grazie all’apprendistato nell’esercito) e dopo sei mesi tenni il mio primo concerto con una band, e da allora non ho più smesso. Per quindici anni ho suonato con il Chicago Tentet di Peter Brötzmann (collettivo che non esiste più dal 2012, ndr) come trombettista. Albert era la mia ispirazione.
Ho sentito dire che ha una storia molto interessante a proposito di Ornette Coleman…
Nel luglio 1967 fui invitato per la mia prima sessione di registrazione con Clifford Thornton, ero a Downtown New York in un appartamento e stavo provando con la mia tromba; mi bussano alla porta, apro, ed è Ornette Coleman, con un’altra tromba in mano, che mi fa: “Perché non provi questa? Abbiamo una sala prove giusto dall’altra parte del corridoio, quindi, quando hai finito, riportacela lì”. Andai e nella stanza c’erano Charles Moffet con la sua batteria ed il suo vibrafono, David Izenzon al contrabbasso e Ornette. Fu davvero da brividi per me. Mentre tornavo a casa in macchina alla radio sentii che John Coltrane era morto. Il venerdì tornai a New York, credo fosse il 21 luglio, perché il sabato era giorno di registrazione. Ornette tornò a bussare alla mia porta per chiedermi se sarei andato al funerale di Coltrane. Io dissi semplicemente che non potevo perché non avevo il vestito adatto. Ornette mi disse di non preoccuparmi, di venire e basta. Così andai, vidi Coltrane nella sua bara, ascoltai la cerimonia e il quartetto di Albert Ayler che suonava per l’occasione, e il quartetto di Ornette suonare nella chiesa. Fuori dalla chiesa Ornette e Billy Higgins mi invitarono ad andare con loro al cimitero, salii sulla loro Cadillac, ma restammo bloccati nel traffico, così perdemmo la sepoltura. Tornati a casa, dopo poco nuovamente mi bussarono alla porta e di nuovo era Ornette che mi invitava ad andare a sentire il suo trio al Vanguard la sera stessa. Il giorno dopo era giorno di sessione in studio e quando arrivai vidi che al basso c’era Jimmy Garrison, il bassista di Coltrane! Comunque per un periodo diventai una sorta di runner per il suo gruppo, lo portavo in giro in macchina ed a volte ho anche suonato nel suo appartamento. Il sax di plastica che anche io uso è un chiaro omaggio a lui, è stato una persona cruciale nella mia vita, molto generosa.
Quali sono i suoi progetti attuali, oltre ad A Pride Of Lions (con Josh Abrams, Chad Taylor, Daunik Lazro e Guillaume Séguron, protagonisti nelle ultimi edizioni sia di Ai confini tra Sardegna e Jazz che del Météo di Mulhouse, ndr) ?
Suono in un trio di tromboni, Trombone Insurgency, con il trombonista Steve Swell e Dick Griffin (un tipo davvero interessante, del 1939 come me, con una storia molto densa, ha suonato con la Arkestra di Sun Ra, con Rahsaan Roland Kirk). Sono ancora abbastanza giovane per imparare, credo, suono un trombone a valvole che apparteneva a Clifford Thornton, mi sento ancora pieno di energia, se non lo sei, cosa fai? Ho cercato di imparare anche il clarinetto, non mi sono mai cimentato con il piano, scrivo poesia, dovrei avere qualcosa prossimamente di pubblicato con dei lavori visivi di Peter Brötzmann. Continuo a suonare con lui in duo o in quartetto, con Michael Zerang e Kent Kessler.
Il suo era il ruolo del ragazzo per bene nel duo con Brötzmann? Non ha la stessa irruenza e fuoco nei polmoni, o sbaglio?
(Ride di gusto, ndr). No, non è il mio modo di suonare. Da poco Peter è stato in studio a Vienna e lui stesso mi ha detto che ha registrato materiale per 10 (!) cd in solo, principalmente di musica scritta dai suoi eroi musicali. Lui è instancabile, ma anche io cerco di darmi da fare. Ho in cantiere un duo con Hamid Drake, ci ritroviamo dopo vent’anni. Non ho mai fatto un disco di tromba in solo, mi piacerebbe farlo. Poi c’è un progetto, Decoy, con Alexander Hawinks all’Hammond B-3, Steve Noble alla batteria e John Edwards al contrabbasso.
Se dovesse scegliere una manciata di dischi come ascoltatore?
Kind Of Blue di Miles Davis. Ho suonato questo disco fino a consumarlo. Change Of The Century, Ornette Coleman. Out To Lunch!, Eric Dolphy. Naturalmente Love Cry, dove accanto ad Albert Ayler ci sono suo fratello Donald, Alan Silva, Milford Graves e Call Cobbs. Mi piace la musica di Harry Partch con i suoi strumenti autocostruiti, infine Pauline Oliveros è stata una mia buona amica e fonte di ispirazione a molti livelli, il suo lavoro sul deep listening mi ha influenzato molto.