PARK JIHA, Communion
Un soffio, un respiro che si fa strada attraverso una nebbia intima e galattica, rimbrotti celesti come di stelle severe e lontane, un sentiero lastricato da aguzzi ciottoli percussivi, spigoli elettroacustici, un sipario che si apre su un mondo alieno, subacqueo, una terra colma di domande. Dove siamo? Una felice sensazione di disorientamento e di meraviglia accompagna le orecchie e il cuore all’ascolto di “Throughout The Night”, traccia di apertura di Communion, l’esordio solista per Jiha Park dalla Corea del Sud. L’entrata di un suono che parrebbe quello di un sintetizzatore, ma in realtà è un piri (una sorta di doppio flauto di bamboo che può essere molto rumoroso) sommerso da effetti, è drammatica come nei migliori Popol Vuh: una melodia a presa istantanea, zuppa di malinconia, ci prende per mano e ci porta semplicemente via per cinque minuti di dialogo tra clarinetto basso e piri che rapiscono. Poi, purtroppo, si torna sulla terra. Gli altri strumenti di cui si serve la compositrice appartengono anch’essi alla tradizione popolare coreana e sono lo yanggeum (un dulcimer suonato con i martelletti, vale a dire la versione coreana del santur persiano, o del nostro salterio, considerati da alcuni gli antenati del pianoforte ) e il saenghwang, un organo a bocca. Accompagnata da sassofono tenore, clarinetto basso, vibrafono e percussioni, Jiha esplora le terre di confine tra minimalismo, folk coreano ed post-rock. Se la prima traccia è da brividi, si diceva, il resto del programma pare a volte un poco interlocutorio, a causa di un andamento un po’ troppo risaputo. La seconda traccia, classicamente battezzata “Accumulation Of Time” (un perfetto titolo minimalista) ci fa stendere sui tappeti sottili tessuti dal dulcimer, che con una tipica costruzione post-rock (reiterazione, enfasi trattenuta, aperture previste e prevedibili, caos che monta mentre la struttura resta invariata) all’inizio affascina ma poi lascia interdetti. E la cosa si ripete. Permane la sensazione di un album che poteva offrire meraviglie ma resta a metà del guado, indeciso se mollare gli ormeggi definitivamente. Nella title-track ascoltiamo la medesima lingua, parlata in modo perfettamente corretto e senza strafalcioni, certo, ma incapace di colpire al cuore: le cose migliorano nella seconda parte, quando le acque, prima immobili e mute, si increspano. Il canovaccio però si ripete più o meno invariato in ognuno dei sette pezzi qui presenti: reiterate figure elementari a sorreggere architetture nitide e regolari, mappe minime per viaggi circolari che abbiamo già fatto tante (troppe?) volte. La variazione molto interessante, nel caso specifico, è data dall’aspetto timbrico: i suoni degli strumenti della Park fanno decisamente la differenza, mentre purtroppo il sassofonista tende a banalizzare un po’ il tutto, finendo a volte per sembrare uno Jan Garbarek fuori tempo massimo. “Sounds Heard From The Moon” promette allunaggi ma non mantiene del tutto: non siamo così distanti dalle meditazioni al liuto di Jozef Van Wissem. In altri frangenti, a suonare è Steve Reich, per una festa religiosa in uno sperduto villaggio della campagna coreana. “The First Time I Sat Across You” riprende in maniera quasi identica “Sounds Heard From The Moon” aggiungendo un sassofono nuovamente non così pregnante e deviando poi di poco dal sentiero già battuto. Come fa un po’ tutto Communion, che ha ricevuto consensi un po’ unanimi ma che al vostro cronista è parso un’occasione persa, soprattutto per via delle aspettative create dallo splendido pezzo di apertura.