Jernberg & Hawkins, Campiche, Melnotte, Evans all’AMR Jazz Festival di Ginevra

Ginevra, AMR-Sud des Alpes. Foto di Piercarlo Poggio.
COCON JAVEL + SOFIA JERNBERG & ALEXANDER HAWKINS, 26/3/2025
JULIE CAMPICHE + FLORENCE MELNOTTE + PETER EVANS, 30/3/2025
Collocata in posizione strategica al 10 rue des Alpes, a quattro minuti scarsi a piedi dalla principale stazione ferroviaria (dipende se trovate rosso il semaforo), sorge la sede dell’AMR, acronimo estratto con un po’ di fantasia dall’espressione “Association pour l’encouragement de la Musique impRovisée”. Dentro un intero palazzo, occupato dalla cantina al sottotetto, l’AMR da mezzo secolo è un punto di riferimento essenziale per il jazz, in tutte le sue forme, a Ginevra. Nelle sale, spartane ma funzionali, trovano posto due/tre concerti a settimana, jam session e un’importante attività didattica per oltre 250 allievi l’anno. L’organizzazione di un festival a carattere internazionale non può mancare e con quest’anno si è giunti alla 44a edizione. Incuriositi dai nomi in cartellone, abbiamo optato per i giorni di apertura e di chiusura. Sulla band apripista, Cocon Javel, non c’è molto da dire se non che l’indie-electro-pop proposto è ancora troppo acerbo per essere giudicato. D’altra parte Julie B., Mélusine e Athina erano soltanto al secondo live e avendo dalla loro la giovane età e la fortuna di vivere in Svizzera (= un’infinità di occasioni per suonare di fronte a un pubblico), non mancheranno di progredire. Di sicuro avranno preso nota sul come si fa a portare alla giusta temperatura un’esibizione assistendo all’ottima prova di Sofia Jernberg e Alexander Hawkins. Il pianista inglese sta vivendo una fase di carriera a dir poco sfolgorante, e che sia solo oppure in compagnia sa come farsi trovare pronto. Il duo con la vocalist svedese di origini etiopi è già stato documentato alla perfezione in Musho, pubblicato dalla Intakt nella primavera scorsa. È un variato repertorio in vagabondaggio fra le lingue e le tradizioni, affrontate senza farsene condizionare, si tratti di Etiopia (“Adwa”, “Gigi’s Lament”), Svezia (“Mannelig”) o Armenia (“Groung”), avvicinate e poi metabolizzate con una chiave interpretativa sempre diversa, inusuale, spiazzante. Hawkins nasconde come meglio non potrebbe la sua prodigiosa tecnica, alza e abbassa i toni, inserisce pezzi di metallo nel corpo dello strumento, tira e distende i temi da ogni parte, con anticipi, ritardi e quando serve anche con impercettibili pause. Alla Jernberg non resta che completare l’opera con la sua voce ora calda e appassionata, ora ribalda e aggressiva, pronta a danzare sul precipizio di una vertiginosa sperimentazione. Una delle coppie artistiche meglio assortite dei nostri giorni. Se vi capita, non mancatela.
Julie Campiche si è offerta in solo e con un programma inedito, Unspoken, di prossima apparizione su disco. Al centro dei suoi interessi storie di donne coraggiose (e viventi, ha tenuto a precisare), vicende anonime e sconosciute rintracciate dopo approfondimenti e ricerche. Un’indagine appassionata e femminista tradotta in brani articolati, in cui la sua arpa interagiva con loop elettronici creati sul momento e altri effetti, a volte anche semplici, come un foulard passato tra le corde. L’uso della voce a mo’ di strumento è un’ulteriore risorsa, ma in un caso la Campiche ha cantato una canzone in carne e ossa, dedicata a Las Patronas, il collettivo di donne messicane che offre acqua e cibo a chi prova a passare il confine fra Messico e Stati Uniti a bordo del treno merci chiamato “la Bestia”, accompagnandosi con tamburo e shruti box. In sostanza, un live di indubbie potenzialità, necessitante di una robusta revisione (come ammesso dalla stessa Julie), perché la gestione in scena dell’elettronica rimane un osso duro: a volte abbiamo l’impressione che oggi gli artisti siano più preoccupati del funzionamento della loro attrezzatura che di aver interiorizzato la musica da eseguire. Un tormento che per certo non assilla Florence Melnotte, idolo di casa, anche se pure lei accanto e sopra il pianoforte teneva magiche tastierine. Il suo solo tutto d’un fiato è però stato sostanzialmente acustico, robusto e variegato, in un corto circuito che univa scampoli blues, spigoli monkiani, attimi di libertà tayloriana, astrattismi lunari, straight jazz, suoni da camera e non poca ironia. Come quando sul finire annunciava una “love song” eseguita calandosi sulla fluente chioma e sul volto una calza vistosamente dipinta. Tanti applausi, meritati.

A chiudere con grande dinamismo, come meglio non si poteva chiedere, il quartetto Being & Becoming di Peter Evans, comprendente Joel Ross (vibrafono, synth), Nick Jozwiak (contrabbasso, synth) e il batterista Jim Black a sostituire il titolare Michael Ode. Black che d’altro canto conosce da lungo tempo e alla perfezione l’universo del trombettista e non a caso è apparso anche nel suo recente Extra (We Jazz), in trio con Petter Eldh. Un set perlopiù tirato ed energico, con Evans che nell’alternare quattro strumenti – due trombe, trombino e flicorno – ha dato fondo al suo bagaglio tecnico, spingendo talmente sul virtuosismo da riuscire, per paradosso, a dissolverlo. Così, negli esplosivi momenti in solo si è avvertita una naturalezza genuina, tra sovracuti e repentini cambi di registro alto-basso oppure rumorismi ottenuti levando il bocchino e soffiando nel canneggio. Ross ha retto benissimo il sacco al leader e a sua volta si è preso ampi spazi di libertà, con pieno merito dato che attualmente è senz’altro il miglior vibrafonista in circolazione. Nonostante ciò la performance dei quattro ha mantenuto tratti collettivi evidenti, non potendo fare a meno delle potenti tessiture poliritmiche di Black e del walkin’ bass di Jozwiak. Pur senza rinnegare augusti modelli del passato (Bill Dixon, Don Cherry), Evans ha rimarcato di essere in grado di leggere le tensioni del presente con rara lucidità. Tutti a casa, contenti.
