JESU, Terminus
Jesu, una delle creature di Justin K Broadrick, torna con un full length, il primo dai tempi di Everyday I Get Closer To The Light From Wich I Came (2013), anticipato a luglio di quest’anno dall’ep Never. Chi è avvezzo alla malinconia granitica insita nelle vene di questo progetto post Godflesh troverà conforto in Terminus, settima tappa in studio uscita per la Avalanche Recordings, etichetta dello stesso Broadrick. Ad aprire il sipario su questa torbiera crepuscolare è “When I Was Small”, che con le sue vibrazioni incalzanti, sostenute da Ted Parsons alle pelli (lo incontriamo anche nella title-track e in “Don’t Wake Me Up”), sfoggia la caratteristica dualità heavy/pop tanto vestita dalla band. Partenza ottima su di un tracciato conosciuto. Una sterzata brusca fa scodare rigando i Sigur Rós più in piena in “Alone”, brano che devia il flusso dalle pesanti chitarre per concentrarsi su multi-strati di cori effettati e un basso piacevolmente lineare. Deviazione gradita prima di essere riproiettati con “Terminus” dentro a quella bolla incenerita chiamata Terra, dove una luce opaca filtra attraverso una coltre grigia e un suono rorido riecheggia accompagnandoci in ginocchio tra le rovine. A volte ci si chiede da dove Justin abbia estratto questa attitudine mesta che instancabilmente, e per fortuna, continua ad incidere su disco con i suoi diversi alter-ego. Se si pensa che lui a 12 anni ascoltava i Whitehouse a casa, solo, con una nonna appassionata di occulto, mentre i genitori andavano in giro a montare ghigliottine sui palchi a nome Anti-Social, forse una risposta la si può immaginare. La quarta tappa è “Sleeping In”, marcia titanica, stanca, a guida della quale ci sono i riff incrollabili di chitarra che trascinano il tempo nella speranza di salvarlo dal suo esaurimento. Qui ci ricongiungiamo alle sonorità del disco omonimo, inamovibile ed etereo. Le tematiche rimangono costanti: solitudine, rifiuto e dipendenza, mentre mutabile è la maniera in cui ci vengono proposte, come per “Counsciousness”, dove l’accostamento di Broadrick all’elettronica d’ambiente si fa più marcato, innalzando una voce robotica su loop di layer reverberati e un rullante digitale. “Disintegrating Wings” mantiene lo stesso carattere mellifluo ma votato all’analogico: sono, infatti, le note di un piano ad aprire la traccia, continuando pigre fino all’apparizione dei soliti riff rocciosi, questa volta più timidi. La tracklist sembra pensata per ripercorrere la carriera di Jesu, dai refrain chitarristici invadenti allo shoegaze più fumoso per attraversare i colori appassiti dei Bark Psychosis di Hex con “Don’t Wake Up”, che fa l’occhiolino a quella corrente inquieta di metà Novanta. In chiusura, ad ampliare la gamma sonora, c’è “Give Up”, traccia strumentale che effettivamente ci desta con un groove sintetico bello scattante, intorno al quale si arrampicano arpeggi e densissimi strati di sintetizzatori. Con le restrizioni sempre più rigide, l’umanità ricurva su sé stessa e la pianura padana conquistata da una nebbia che annienta lo scorrere del tempo, Terminus pare essere la soundtrack di un futuro documentario sull’oscurità di questo periodo storico, con miliardi di bocche contorte rinchiuse nelle mascherine ed occhi rassegnati che si sfogano gli uni sugli altri. Disco che nel complesso riconferma l’instancabile creatività di Justin, arricchendo il bagaglio di Jesu con tracce ispirate e un sound in continua espansione.