JESSIKA KENNEY & EYVIND KANG, The Face Of The Earth

JESSIKA KENNEY & EYVIND KANG, The Face Of The Earth

Il recupero di ere e luoghi lontani è un tema caro a Jessika Kenney, ma soprattutto ad Eyvind Kang. Iniziato specularmente in Aestuarium, il loro percorso si evolve nel successivo The Face Of The Earth, anche grazie all’utilizzo di una strumentazione più ampia, con Jessika a voce e percussioni ed Eyvind a viola e setar, senza tralasciare l’elettronica. Registrato tra Seattle, Istanbul e la Chiesa di San Bartolomeo a Bologna da Mell Dettmer e Randall Dunn, l’album esplora ancora i motivi del doppio, a partire dall’immagine geologica della copertina, che esprime il “volto del mondo” (in persiano “rokh -e khak”) nella sua componente terracquea. Nonostante la forte personalità dei materiali, l’ascoltatore è libero di muoversi tra le maglie di tradizioni sempre riscrivibili. I tarocchi presenti nell’insert, con indovinelli e riferimenti nascosti, servono a questo: invocano atmosfere di conoscenza primordiale e stimolano i processi di traduzione e composizione.

La prima traccia, “Tavaf”, è un riadattamento di un gazal di Attar che ci riporta nel medioevo persiano. Complici i lunghi studi con il maestro Omoumi, Jessika è ormai padrona di un linguaggio che reinterpreta in maniera intima e personale. Kidung ritorna alla biosfera giavanese-iraniana, con il setar a mimare i ritmi del gamelan. Ma è nella seconda parte del disco che il presente si affaccia con più coraggio, come in Mirror Stage, che col suo climax di pattern vocali, rifrazioni al delay e contrappunti evanescenti ricorda tanto Meredith Monk quanto la Joan La Barbara del periodo sciamanico. I concetti di attunement ed entrainment, fondamentali nella musica indonesiana, spiegano bene il sodalizio che intercorre tra lei e l’ascoltatore. L’attunement richiama la sintonia tra madre e bambino, trasponendola nel rapporto tra il musicista e il suo pubblico. Anche lui si sintonizza sui bisogni emotivi, intellettuali e creativi del pubblico. L’entrainment è invece una sorta di adesione senza pregiudizi allo spazio d’ascolto, dove si crea un’osmosi tra chi produce e chi fruisce il suono, particolarmente attraverso la pulsazione ritmica. In tal senso, la musica giavanese è davvero efficace: i grandi e piccoli cicli delle percussioni del gamelan, come anche la differenza tra le varie intonazioni, creano una forte sinergia all’interno del luogo performativo.

La traccia di chiusura dà il titolo all’album e rievoca l’essenzialità duale di Aestuarium, che riemerge più solida e magnetica che mai, fino a divenire metafisica oscura e solitudine ubiqua, ad anticipare l’inquietudine del loro lavoro più recente, At Temple Gate.

La nostra intervista a Jessika Kenney.