JESSIKA KENNEY, Atria
Atria nasce da un sogno della Kenney nel lontano 2007, mentre registrava le voci per l’album Voices Of Spring del suo maestro e amico Hossein Omoumi. A quei tempi stava anche scrivendo delle partiture per il Cornell Gamelan Ensemble di New York e ciò si rispecchia nella doppia anima persiano-giavanese del disco.
Punto d’arrivo di anni di studi e ricerche, Atria sintetizza un circuito spazio-temporale perfettamente integrato tra le due tradizioni, elaborate da una scrittura consapevole, cesellata da una voce libera che va a tessere trame leggere con minuzia microtonale.
“Her Sword” apre le danze con la rilettura di un kidung che è un tributo alla profetologia. Scelta tra una serie di pièce che in origine erano trasposizioni di poesie sufi calate in ambientazioni giavanesi e sundanesi, è un’escursione per le scale slendro con la parte melodica affidata alla pesindhèn Kenney.
Ad accompagnare il disco sono ben tre gamelan diversi, con registrazioni effettuate nell’arco di sei anni da Mell Dettmer e rielaborate per traghettare frammenti di tradizione nella contemporaneità. Ospite d’onore, l’immancabile Eyvind Kang a setar, viola e flauto.
Il disco è un alternarsi di melodie indonesiane più o meno solenni, che sovrapponendosi creano atmosfere di sospesa sensualità (“Turning Inward”), scambi culturali sulla Via della Seta (“Sarira Tunggal”, che celebra un antico approccio cinese al kidung) e simbiosi alchemiche di voce e metallofoni (“Pamor”). Qui in particolare, i lunghi drone di voce che si sdoppiano generano ombre e fantasmi che si corteggiano circolarmente, disegnando orizzonti meditativi. La tradizione diviene un canovaccio attualizzato in chiave contemporanea, e la ginnastica noise di “Ingsun”, dove sussurri animaleschi accompagnano un ensemble di respiri e rumori, non fa che ribadirlo.
Il viaggio prosegue con un ultimo mantra a sfondo profetologico, “Wiji Sawiji Mulane Dadi”, incentrato sulle acque curative. Il field recording dello scorrere di un ruscello, registrato nel giardino di casa della Dettmer, si mescola al canto, in un’atmosfera sacra che mima una sorta di benedizione, seguendo i precetti dei testi tradotti da Nancy Florida. Per un attimo si ha la sensazione di aver messo i piedi nel Gange di Alice Coltrane, anche lei al crocevia tra Medio ed estremo Oriente, nonostante lo sguardo fisso al Nord Africa.
Un disco che non cerca il facile plauso e suscita riverenza, delicato come porcellana e pervasivo come il sangue che scorre negli atri del cuore, volatile come la radice atr- (in arabo profumo, essenza) e catartico alla maniera ancestrale delle migliori opere contemporanee.