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JESSICA MOSS, Entanglement

Per chi ha una qualche dimestichezza con il catalogo Constellation il nome della violinista canadese non dovrebbe risultare del tutto nuovo, vista la sua partecipazione in pianta stabile ai Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra e ai meno noti Black Ox Orkestar, oltre che per la lista chilometrica di comparsate su dischi altrui, da Vic Chesnutt ai Broken Social Scene, giusto per fare qualche nome. Una carriera ormai ventennale che nell’ultimo lustro ha trovato anche una sua declinazione solista, di cui questo Entanglement rappresenta il terzo episodio. Due lunghe suite per violino, “a crudo” o messo in loop, stratificato, e rimaneggiato elettronicamente, in cui la Moss fa praticamente tutto da sola, alternando ermetici slanci avanguardisti a giochi di sovrapposizione armonici situati a metà strada tra folk europeo e quella “post classica” cara alla Erased Tapes. Delle due parti dell’album la prima è sicuramente quella più ambiziosa, un’austera e minimale traversata di silenzi in cui tremolii e rifrazioni puntillistiche si intersecano come onde concentriche sul pelo dell’acqua, magniloquenti exploit melodici si alzano e ricadono nel nulla, bordoni di violino e crescendo atonali introducono voci solitarie che diventano cori armoniosi in un vorticare amniotico che si spegne pian piano. Lasciando da parte il riferimento un po’ bolso all’entanglement quantistico o – meglio – alla sua interpretazione melodrammatica entrata nel senso comune (e di fronte alla quale i fisici, presumo, storceranno il naso), questi primi venti minuti, benché a volte faticosi, sono anche i più emotivamente densi di tutto il lavoro della Moss, la quale riesce con pochi tratti a passare dai vuoti più insondabili a tenui illuminazioni colme di malinconia. La seconda parte di Entanglement è decisamente più accessibile, più limpida, anche perché la componente melodica, spesso di derivazione folk, diventa in questo caso centrale. Qui la Moss gioca con sovrapposizioni e riproposizioni, sfasamenti e convergenze di linee melodiche e motivi, sistemati e ri-sistemati in una sorta di continuo auto-rimando compositivo, la cui struttura complessiva appare però meno studiata, anche più ingessata se vogliamo, rendendo il dipanarsi delle quattro sezioni di “Fractals (Truth)” abbastanza aleatorio. Si sente forse troppo la mancanza di una cornice efficace capace di legare insieme episodi che, presi singolarmente, pagano qua e là anche qualche momento scontato di troppo a livello di temi proposti e della loro evoluzione, pur non lesinando sui frangenti carichi di pathos genuino. Non tutto fila liscio insomma, ma nel complesso non sembra assolutamente una cattiva idea dare fiducia al percorso in solitaria, sempre più indipendente dagli stilemi del passato, dell’artista canadese.