Jazz Is Dead! – danze tra psichedelia, minimalismo e improvvisazione
Torino, San Pietro in Vincoli, 24-25-26 maggio 2019. Foto di Irene Gittarelli & Amalia Fucarino.
Nota della redazione: al report è abbinato un capitolo a parte, dedicato alle interviste ai protagonisti dell’evento.
Intro
Devo ammettere che, pur avendo una solida formazione accademica come storico dell’arte, era davvero la prima volta che mi capitava di trovarmi in un complesso monumentale – simbolicamente legato al tema della morte – con una forza evocativa come quella suscitata dall’Ex Cimitero di San Pietro In Vincoli a Torino. Chiunque si addentri in questo spazio non può non notare quel feroce angelo della morte che impera dominante nel timpano che sormonta l’arco d’ingresso del pronao. Lo stesso, funesto richiamo iconografico ricorre, ripetuto, nei capitelli con i teschi alati, che definiscono le paraste della cappella del cimitero, tanto nella facciata come nei volumi interni. È qui, dunque, che si consumano i tre giorni del Jazz Is Dead!, rassegna che quest’anno giunge orgogliosamente alla sua terza edizione. È sorprendente pensare come in questo luogo, in passato adibito non solo alla sepoltura delle famiglie nobili ma anche alle esecuzioni capitali, si voglia invece celebrare la vita attraverso l’incontro trasversale di differenti linguaggi ed estetiche musicali. Il jazz di oggi, più che morto, sembra sepolto e mummificato tra le mura di tanti Conservatori dove i maestri-grandi-musicisti sono spesso i primi responsabili di un’inevitabile standardizzazione, conseguenza di una scarsa apertura ad altre dimensioni sonore. Ben diversa era la situazione negli anni Sessanta e Settanta, al tempo dell’esplosioni delle controculture giovanili e della nuove musiche d’ambito rock, quando il jazz sembrava effettivamente rappresentare un referente “spirituale” importante per qualsiasi nuovo giovane musicista; il jazz restava vivo perché non era tanto visto come qualcosa “d’assoluto”, ma come una “possibilità” che potesse dialogare in modo fecondo con altre realtà, contesti ed idee musicali, e germi e schegge di jazz le trovavamo tanto nella psichedelia quanto nel progressive, nell’avanguardia come nel acid-folk. In definitiva, il festival di Torino recupera proprio quest’idea di commistione e ibridazione senza confini, per quanto propositivo anche di artisti che con il jazz hanno poco o nulla a che vedere. Ma di fatto, quel corvo che nel logo del festival divora la stellina (quasi a simboleggiare i tanti inutili Grammy Awards o le targhe commemorative del jazz?) non sta a indicare proprio lo scardinamento di un’idea di fare musica troppo vincolata a un solo genere? Sta di fatto che il direttore artistico Alessandro Gambo, instancabile divulgatore di musica e organizzatore di numerosi eventi nel capoluogo piemontese, ha le idee ben chiare nello spalmare le proposte musicali attraverso tre precise coordinate di riferimento che, nei tre singoli giorni, possono essere ricondotte nell’ambito del minimalismo, della psichedelia e dell’improvvisazione d’avanguardia. In questo modo, viene raggiunto anche un buon compromesso tra attrazione internazionale di altissimo livello (The Necks, Thurston Moore & Jooklo Duo, Evan Parker & Setoladimaiale Unit, Ariel Kalma), certezze ormai collaudate del panorama italiano ed europeo (Lino Capra Vaccina, Al Doum & The Faryds, The Winstons, Tomaga) e nuova verve della sperimentazione locale piemontese (Indianizer, Grams).
Primo giorno (venerdi 24 maggio): dalle metafisiche del suono all’industrial ipnotico
Al momento del mio arrivo nel cortile porticato dell’Ex Cimitero, i Tomaga stanno finendo il soundcheck, di cui riesco ad ascoltare gli ultimi suoni. Sinceramente, di loro non conoscevo davvero nulla, così decido prontamente di fare due chiacchiere con la batterista Valentina Magaletti almeno per ricevere quei minimi indizi introduttivi, propedeutici per la loro performance serale. Poco dopo giunge Lino Capra Vaccina, con il quale ci salutiamo cordialmente; ci si conosce già e parleremo a lungo a più fasi durante la serata. Però, m’incuriosisce scoprire qualcosa di più su Max Marchini, animatore dell’etichetta Dark Companion, che è giunto al festival con Lino, accompagnato dalla giovanissima cantante Annie Barbazza, pupilla del vecchio Greg Lake, alfiere del prog inglese con i King Crimson e con gli Emerson Lake & Palmer. Con Max rimaniamo a parlare sotto uno dei due portici, nella zona adibita per alcuni dj-set, per il banchetto dischi degli artisti e per una bellissima raccolta di vinili in vendita. Durante il soundcheck di Lino inizia a piovere, ma riparati sotto al portico ci lasciamo allietare da alcune soffici note di piano che giungono dalla cappella. Sono infatti quelle intime e sacre mura che ospiteranno tutti i live della rassegna: uno spazio ristretto dove, grazie a un’efficace premura dell’organizzazione, non ci saranno problemi causati dal flusso dei partecipanti. È proprio Vaccina ad aprire le danze nel tardo pomeriggio, con il suo tipico linguaggio che parla sempre di metafisiche e archetipi del suono. Lino si destreggia sempre prima al gong, esplorandone le numerose varianti timbriche tanto con la mazza che con l’archetto; con quest’ultimo passa ad accarezzare il vibrafono, creando suoni dall’altro mondo, con alcuni effetti che ricordano la tonalità synth glacier delle tastiere Midi della Yamaha. Anche quando sono le bacchette a far vibrare i risuonatori tubolari, Lino crea quell’universale sospensione del tempo, priva di qualsiasi apertura, ma ciclica e costante nel suo incedere meditativo. Certe atmosfere mi hanno riportato non lontano da quelle contemplazioni ancestrali che erano già nei rari album degli Arica, un combo di psiconauti olistici della New York degli anni Settanta. Le sequenze astratte del vibrafono magico sono semplicemente scandite da minime campionature di percussioni etniche, scintillii metallici in loop, che danno quella sufficiente base d’appoggio ritmica. Ma è quando suona il piano che Lino concede un autentico stato di grazia al pubblico, con un tocco riverberato rallentatissimo, disteso e sofferto, quello di un pura anima minimalista tra Jordan De La Sierra e il Florian Fricke solista. Quella del pianoforte è una recentissima vocazione espressiva per Vaccina, che speriamo sfoci presto in una luminosa, ennesima prova discografica.
I Necks non hanno quasi bisogno di alcun commento, perché le parole sono davvero insufficienti a descrivere quella tensione che ogni volta il trio australiano riesce a creare con il minimo dei mezzi dispiegati. Con il loro set, Tony Buck, Lloyd Swanton e Chris Abrahams rimangono i cerimonieri assoluti di quel loro tipico progredire catartico che ti aggredisce le viscere e te le contorce fino a rigettarle nel vortice inestricabile di un labirinto senza uscita. A volte rallentano quasi più delicati, ma è una quiete che dura poco, poi ripartono impetuosi ancora più di prima, con una tempesta dove i fulmini sono semplici pattern di piano e contrabbasso e un Buck più evidente e agitato sui metalli e i tamburi. Vi confesso che a tratti sarei voluto uscire prima della fine, non perché non mi stesse coinvolgendo, anzi, è perché non riuscivo più a gestire quel qualcosa d’indescrivibile che pulsava dentro, che agisce nel corpo ancora prima che nella mente. Una sensazione analoga l’ho vissuta solo un’altra volta, sempre a Torino, in occasione di una micidiale performance assassina dei Damo Suzuki’s Network. Dei Tomaga, come dicevo, posso dirvi poco, e dovrei sicuramente approfondire l’ascolto dei loro dischi prima di cimentarmi in considerazioni più precise. Dal set di Torino, però, è emersa sicuramente non solo la bravura e versatilità strumentale della Magaletti, ma anche la loro consapevolezza nell’erigere un sound ipnotico e robusto, figlio di cupezze industrial e di stranezze percussive.
Secondo giorno (sabato 25 maggio): the freak side of psychedelia
Il giorno del festival in cui poter sperimentare il differente side della psichedelia è probabilmente – considerando i nomi delle band coinvolte – quello più atteso dal pubblico del Jazz Is Dead!. Quando nella tarda mattinata del sabato arrivo in San Pietro in Vincoli, ci sono già i cari amici Al Doum & The Faryds che scaricano la loro ricca strumentazione. Il tempo promette bene, il sole è alto su di noi, ma di fatto tutto il corso del festival sarà caratterizzato da un meteo alquanto londinese, oscillante tra forti scrosciate di pioggia e ampie schiarite. Non tardano nemmeno i Winstons, a parte il loro batterista Linnon, che ha perso un treno (arriverà comunque in tempo per il concerto). Di fatto, Gabrielli e Dell’Era si rinchiudono per un bel po’ con il loro agente Cristian Scarola nella cappella dell’ex cimitero, cercando di raggiungere il giusto assetto dei suoni, cosa che riusciranno a fare solo in parte. Sotto al portico allestito con un chiosco di cucina vegetariana, rimango a conversare e scherzare con gli Al Doum, quando all’improvviso compare il vecchio freak Ariel Kalma, che sembra atterrato direttamente da una soleggiata e selvaggia spiaggia australiana, con tanto di impeccabile abbronzatura. È proprio il polistrumentista francese ad aprire la seconda giornata ma, ahimè, con esiti molto incerti e non sempre gratificanti. Conoscendo molto bene i suoi lavori storici e immortali come Open Like A Flute, Osmose o i recenti French Archives pubblicati dalla Black Sweat Records, rimango sempre spiazzato e alquanto insoddisfatto delle sue esibizioni live. Il problema sostanziale di Ariel è logistico, paga probabilmente l’assenza dai concerti per diversi anni, sembra perdersi troppo nella restituzione tecnica delle sue affascinanti idee sonore, con ritardi, inceppature e poca precisione nell’utilizzo dei dispositivi di supporto ai campionamenti; tutte dinamiche che frazionano troppo la fluidità cosmica tipica delle sue migliori prove discografiche. Di fatto Ariel non opta mai per il brano esteso, piuttosto per piccole vignette sonore. Anche a Torino dimostra di voler comunicare e interagire col pubblico, invitandolo a fischiare come fanno gli uccelli, in un siparietto piuttosto giocoso e ben riuscito. I momenti di alta musica non mancano, come quando i canti profondi del suo sax si distendono su drone spaziali molto evocativi. Almeno in altri due brani, Kalma si conferma guru di certe sonorità etno-kosmische: il primo è un ricordo del suo lungo soggiorno nella Cattedrale di Saint John The Divine a New York, nel quale fa fluire l’effetto da organo della tastiera su un avvolgente harmonium campionato; nel secondo il flauto dolce omaggia la mistica cristiana Hildegard Von Bingen, in un raffinato episodio più magico-pagano, quasi dall’accento bucolico. Poi però sfocia in sonorità New Age grassone e facilone, che sembrano uscite da ignote pellicole anni Ottanta. Rimane il dubbio che l’ascolto dei suoi dischi, come il nuovo e sorprendente Intemporel in compagnia di Sarah Davachi, rimanga sempre una certezza, a confronto dei suoi live godibili, ma non totalmente convincenti. Non deludono invece gli Al Doum & The Faryds, che restano impeccabili nel loro sound che fa incrociare a meraviglia i lati più free e spiritual del jazz (Sun Ra, Miles Davis, Don Cherry, Pharoah Sanders, Jeremy Steig, Pyramids) con trame space-rock imbastite da furori esotici e tribali. L’idea di gruppo degli Al Doum è quella che più ricalca e si avvicina all’idea di comunità-family musicale di altri combo freak come gli epigoni teutonici Embryo e Amon Düül. La band di Milano suona quasi tutto il suo ultimo disco Spirit Rejoin, che ha ottenuto successo in tutta Europa. Brani come “Weed And Love”, “Light Up”, “Solchi”, “Unity Is Brotherhood” e “Satieva” non vengono mai riproposti fedelmente, ma vivono sempre di un continuo processo di revisione osmotica degli arrangiamenti, tra il suono grezzo e tossico del Fender Rhodes, le dilatazioni sfrenate e iper-vibranti dei sax, le invocazioni corali e l’abilità prestigiatrice nelle dinamiche poliritmiche. Nel set di Torino, spazio anche ad alcuni brani inediti, cha la band inizia a rodare in vista di un nuovo album, e si sente come Davide Domenichini e compagni vogliano ancora aprire spazi di vorticoso free-psichedelico e ricondurli verso accenti orchestrali e corali di ascendenza più marcatamente jazzistica.
Al pari degli Al Doum, anche i Winstons hanno un forte rapporto con il passato, ma di certo il loro pop-psichedelico trainante ed eclettico vive di un respiro più filologico e fedele ai modelli di riferimento. Nonostante la pioggia, il trio fa il pienone e il suo set è assolutamente potente, acido e grezzo al punto giusto. Come già per gli Al Doum, durante la performance slide biomorfe dalle pulsanti forme amebe vengono proiettate sulla parete del palco, accentuando quella tipica atmosfera Sixties di compenetrazione luminosa tra musica e immagine astratta. La presenza scenica dei “tre fratelli” è ineccepibile, al pari della loro notevole abilità strumentale; incarnano perfettamente il loro profondo essere rocker anche nel look, alquanto glam nel pellicciotto bianco esibito da Roberto Dell’Era, come nelle abbondanti dosi di matita nera sugli occhi di Linnon ed Enro. Il concerto inizia senza mezzi termini con le irruenti “Tamarinde Smile Apple Pie” e “Ghost Town”, seguite da “Around The Boat” e “The Blue Traffic Light”, tutte estratte dal loro nuovo disco Smith. I tre musicisti viaggiano veloci e compatti in una calda e caotica esibizione, Linnon e Enro si alternano anche in un brano, scambiandosi i ruoli alla batteria e alle tastiere. Nel mezzo della performance si colloca una sequenza iper-lisergica che sembra quasi un ulteriore tuffo nella pinkfloydiana “Interstellar Overdrive”, che sfocia poi nel solito omaggio alla immortale “We Did It Again” dei Soft Machine. I nostri chiudono con una eccellente interpretazione di “Nicotine Freak”, tratta dal loro disco d’esordio.
Per quanto riguarda gli Indianizer, non ho ancora avuto modo di ascoltare l’lp d’esordio, Zenith, e perciò la mia conoscenza del loro percorso è ancora vacillante e incerta, come nel caso dei Tomaga. L’impressione è che questi giovani “sabaudi” non abbiano per nulla sfigurato al Jazz Is Dead!, anzi, si siano fatti valere con un tiro fortissimo ed incisivo. La loro ricerca si colloca nell’ambito di una neo-psichedelia più contemporanea, per quanto possa conservare non pochi referenti e influenze dalla storica scena krautrock tedesca. Quella da loro esibita, specialmente grazie all’energica presenza scenografica del chitarrista e vocalist Riccardo Salvini, è stata una furibonda ossessione percussiva, supportata dai feedback delle chitarre e dalla giusta strumentazione analogica dei synth: la prima parte del set è un continuum devastante, sembra un vero rituale esorcista, memore del più tossico “sound of confusion” alla Spacemen 3 di un brano come “D.D. Catastrophe”; nella seconda parte prende invece il soppravvento il loro legame con il suono e la ritmica afro-latine. Insieme ad Al Doum & The Faryds e The Winstons avrei visto bene nel programma anche gli Squadra Omega, che avrebbero sicuramente chiuso perfettamente il cerchio, nell’ambito delle migliori proposte italiane a cavallo tra rock, jazz e psichedelia.
Terzo giorno (domenica 26 maggio): polveri drone nella totale distruzione sonica
La domenica mattina, dopo due giorni a Torino passati quasi esclusivamente tra le mura dell’Ex Cimitero, decido di farmi una passeggiata sul lungo Po e al Parco Del Valentino. Non potevo sapere che a pochi passi dal parco, in zona Madama Cristina, ci sarebbe stata anche una piccola fiera del disco. Lo sapevano bene invece i fratelli Roberto e Maurizio Opalio (My Cat Is An Alien), che hanno ben pensato di portarci il loro amico Thurston Moore, da sempre alla ricerca di vinili rari. Di fatto, il leader dei Sonic Youth è il personaggio più atteso dell’ultima tranche del festival. Ce lo si doveva immaginare, ma dispiace constatare che la maggior parte degli accorsi domenicali siano lì esclusivamente per lui, specialmente i fan più giovani della storica band newyorkese. Il programma, infatti, presenta altre cose per cui forse vale la pena esserci. Il pomeriggio lo passo interamente in compagnia degli amici Virginia e David dei Jooklo Duo, coi quali ammazzo il tempo spulciando un po’ di dischi nella zona del dj-set. Con loro è sempre un gran divertimento, due matti totali dall’infinita eccentricità freak. David mi dà poi le giuste riflessioni sull’operazione che da lì a poco li avrebbe visti suonare nuovamente con Thurston Moore. Aspetto con ansia anche l’arrivo di Stefano Giust e Patrizia Oliva della Setoladimaiale Unit, due amici dai quali, fino a qualche anno fa, vivevo a pochi km di distanza sull’Appennino bolognese. Il primo set live vede impegnato il duo composto da Fabrizio Modonese Palumbo (Larsen) e da Enrico Degani. Credo si tratti di un progetto non ancora del tutto rodato, con idee alquanto stereotipate, per quanto gradevole nell’andamento soffice e lievemente galattico delle chitarre che cercano di spiccare il volo in trame d’ambiente, senza però osare troppo e colpire nel segno. Sicuramente c’è un buon feeling tra di loro, ma l’incontro mi è sembrato ancora troppo acerbo nell’esito. Tuttavia ho trovato simpatica una curiosa versione notturna di “Somewhere Over The Rainbow”, con la voce calda e bassa di Palumbo che si perde in un leggero drone, come sussurrato richiamo dalle galassie.
I Grams sono un collettivo d’improvvisatori torinesi che si muovono nel solco di puri drone atmosferici, rombi sporchi di polveri e fuliggini compresse, che possono riportare ai vuoti sonori tipici della poetica di un Mathias Grassow. Anche se non originalissimo, questo quartetto suona in maniera precisa e senza sbavature per quasi un’ora e mezza, con la strumentazione (Moog, oscillatore Verbos, basso e vibrafono) rigorosamente disposta in cerchio. Forse è stato solo poco consono inserirli in scaletta quando la luce del sole filtrava ancora dal portale della cappella, mentre si poteva pensare di collocare la loro performance alla fine del festival, quasi come conclusivo sleep concert, magari invitando il pubblico a rintanarsi nella cappella, a lasciarsi andare per terra senza opporre resistenza, dopo il frastuono micidiale dell’asse Jooklo-Moore. E sinceramente mi aspettavo qualcosa di totalmente diverso anche da Antonio Raia, ma in questo caso, non conoscendo il suo esordio Asylum, brancolavo nel buio delle aspettative. Inconsciamente, avrei desiderato delle pattern minimaliste e ambientali col sax (alla Jon Gibson e Terry Riley, ma forse pretendevo troppo?), invece Raia non mi è sembrato diverso dai numerosi performer di un ambito free-impro molto celebrale e concettuale, che indaga il solito e agognato “rapporto-feticcio tra spazio e suono”. Seppur pieno di tecnicismi virtuosistici, e nonostante fosse accompagnato da inserti di drone, il suono rimaneva sempre frammentato e poco godibile, con i dovuti cliché dell’esplorazione (fine a se stessa, sinceramente ne abbiamo abbastanza…) dello strumento che credo non dicano più nulla e non ci impressionino più, e soprattutto non toccano la sfera del cuore. Invece, per quanto ormai lontano da certe sonorità, ho apprezzato molto l’esibizione di Evan Parker con la Setoladimaiale Unit, se non altro perché è stato un vero compendio di soluzioni sonore e saggio esemplificativo della ben riuscita improvvisazione di un ensemble multiforme. Fulgido è stato soprattutto il tocco al piano di un grandissimo come Giorgio Pacorig, apparentemente provvidenziale nel movimentare il tutto con delle accelerazioni, proprio quando il magma sonoro sembrava stesse impantanandosi in un vicolo cieco. Se gli inserti e decorazioni vocali di Patrizia Oliva sono sempre ben calibrate, Stefano Giust dispiega i suoi gingilli percussivi armeggiando sempre al limite delle possibilità, con cuore e vigorosa corporeità. Dal suo canto, Parker fa la degna parte e certo non delude i suoi fedeli estimatori. Non rientrerò certamente in quest’ultimi, anzi, sono del partito di quelli che hanno sempre sostenuto che “se hai sentito qualche disco di Parker è come se li avessi sentiti già tutti”, ma di certo, oggi come oggi, rimane ancora una ghiotta opportunità ascoltare questo instancabile pioniere che, piaccia oppure no, ha scritto la Storia di un certo “soffiare radicale”.
Veniamo al grande finale, o meglio, come suggerisce Roberto Opalio all’arte della distruzione totale. Vicino alla zona dei fonici l’attesa si fa trepidante; ci sono gli organizzatori del festival, i fratelli Opalio, come anche una serie di idioti (credo fossero altri giornalisti) che già durante il set della Unit, non facevano altro che spendere il loro tempo nel commentare sugli smarthphone i risultati elettorali (che diavolo ci stavano a fare?). Non saprei come definirvi il set furibondo e assolutamente devastante di Thurston Moore coi Jooklo Duo, ma forse la dicitura “jazz-core-sonica” può venirci in aiuto. I tre partono subito violentissimi, con Thurston che sembra indicare la prima via con tipici graffi della chitarra elettrica e pattern abissali. I Jooklo rilanciano con il loro collaudato binomio mortale di sax-tenore e batteria, e Moore va loro dietro alla grande. Neanche dopo venti minuti David sfonda le pelli del rullante e lo alza in trionfo verso il pubblico: pura scenografia da rituale quasi metal. Un attimo di relativa quiete soggiunge solo quando Moore invita sul palco Evan Parker, che si inserisce come può, riportando per un attimo il trio ad uno stadio di quiete apparente. Il tempo che Parker scenda dal palco, ed ecco che riparte ancora più forte la febbrile costruzione di una muraglia di suono letale, con il sax della Genta che a questo punto sembra davvero incontrollabile. I reduci del rito sono in visibilio e appagati, è quello che stavano sperando di più. Il sipario del Jazz Is Dead! non poteva calare nel migliore dei modi, se non con questa pura sinfonia rumorosa.
Il Jazz è morto, ma la musica vive.