JARBOE & HELEN MONEY, Untitled

Jarboe

È da quando sentii il brano del secolo “Lavender Girl” che sono palesemente di parte, tanto da essere abbastanza sfrontato (ma chi se ne frega) da sottolineare quanto segue: gli Swans, senza Jarboe, sono come i Mon Chéri senza ciliegina.

L’Aurora Borealis – che sa il fatto suo – furbescamente afferma che questa è la propria migliore uscita. Punti di vista, ma, pur non conoscendo l’intero catalogo, trovo che Haxan Cloak e Murmuüre siano (per ora) fuori categoria. Adoro Jarboe, e questo lavoro piace. È aggressivo e inquieto, magnetico e della lunghezza giusta: una litografia in avorio finemente intarsiata. Questa volta – anziché quel profumato fiore di gelsomino di Kris Force (presente comunque in fase di missaggio per alcuni brani) – il partner artistico è nientemeno che la rosa spinosa di Alison Chesley aka Helen Money: americana di professione violoncellista d’avanguardia (chiedere informazioni alla canadese Profound Lore). I suoni – che personalmente trovo sempre bollenti e malinconici – emessi dalle spesse corde del violoncello s’incontrano con le ansiose parti vocali e le sonorità circolari della sacerdotessa Jarboe, descrivendo un’immagine di oscuro labirinto racchiuso da una cornice di filo spinato. Escluse le toccanti e tristi lacrime di “For My Father” e “Truth”, l’album si può considerare come un rituale pagano, una processione ancestrale descritta da cerchi concentrici, schemi o percorsi sacri ben precisi e delineati, al fine di raggiungere l’altare del tempio, dove attraverso la venerazione di pietre magiche o minuscoli dolmen è possibile oltrepassare la quinta dimensione.

Nell’ascoltare il disco ammetto che stavo pensando ad una persona cara che ormai non fa più parte di questo mondo. Suona assai intimo, fate attenzione, non vorrei che scendesse anche a voi qualche piccola gocciolina dagli occhi.