JAMES WELBURN
Ne parlavo proprio l’altro giorno col mio amico Loris, che è uno che ne sa a pacchi. Le interviste servono. Non bisogna perder troppo tempo a specchiarsi nelle proprie parole, che siano recensioni, articoli o il post autoreferenziale di un blog. Occorre avere il coraggio di ricevere conferme, smentite, consigli e sberloni. Quest’intervista con l’inglese James Welburn dimostra come lui abbia un punto di vista differente dal mio sul suo disco e apre chiavi di lettura valide per il futuro. Premesso che nemmeno i musicisti stessi hanno sempre ragione, specie – come logico – sul loro lavoro, è altrettanto vero che è dal raffronto che nasce la conoscenza.
Sei inglese, ma vivi tra Berlino e Lillehammer. Secondo te la tua musica riflette il tuo nomadismo?
James Welburn: Non mi considero poi così nomade, dato che mi sposto soprattutto tra Berlino e Lillehammer. Ho lasciato Londra nel 2002 e ci torno molto di rado. Forse la mia musica riflette l’estetica e il sound prevalenti nei due posti dove vivo: il sound minimalista, riduzionista e scuro di Berlino e la musica delle scene sperimentali e noise norvegesi. Da un altro punto di vista sono luoghi contrastanti e io ho lavorato al disco mentre viaggiavo tra i due poli, quindi si dovrebbe sentire la presenza anche di questo.
Quando hai cominciato a suonare il basso? È stato il tuo primo strumento? Hai iniziato il tuo viaggio in un contesto rock o in uno jazz? Te l’hanno insegnato o sei autodidatta?
Ho iniziato a suonare il basso a quattordici anni ed è stato il mio primo strumento. Sostanzialmente ero autodidatta, cresciuto in un contesto rock e metal, anche se poi i miei gusti sono diventati via via più sperimentali. Sfortunatamente non sono mai andato a una scuola, una cosa di cui mi sto pentendo in questi giorni. In ogni caso può essere una buona cosa trovare prima la tua strada e poi imparare come espanderla, che è quello che è successo a me.
Lavori con Ableton, giusto? Vorrei sapere, se per te va bene, come hai bilanciato digitale ed analogico in Hold. Vorrei anche sapere che pensi del dibattito “analogico vs digitale”.
Ho lavorato con Ableton Live sin dai suoi primi giorni ed è semplicemente uno dei ferri del mestiere che conosco meglio. Mi sono trasferito a Berlino nel 2002 e ho avuto uno scambio con Robert Henke (uno dei fondatori di Ableton) nel corso del quale lui mi ha introdotto al programma, che gradualmente è diventato il mio strumento principale. Come naturale che sia, anche la musica di Henke mi ha incuriosito (non avevo familiarità con essa, dato che le mie radici erano rock, non techno). Ero attratto da alcuni suoni chiave che aveva realizzato, di cui gli ho parlato successivamente quando ho lavorato per la Ableton (tra il 2007 e il 2012).
Qualsiasi cosa ti aiuti a raggiungere il risultato va bene, digitale o analogica non conta, è ok qualunque combinazione. Preferisco utilizzare sorgenti sonore mie, che di solito provengono dal mio basso, a volte opportunamente “preparato”. La scelta del basso e come coloro il suo suono prima che questo raggiunga il computer è un aspetto importante. Questi suoni sorgente sono l’essenza di quello che viene processato coi plugin di “sintesi granulare” di Henke, che lui ha reso disponibile per tutti.
Ho realizzato il disco con Ableton Live, ma l’ho usato principalmente per processare, tagliare e mixare. Non uso nessuna delle tecnologie di Ableton per creare loop, che è un grosso pezzo di programma che devo imparare, perché al momento non si adatta al mio metodo. Lavoro con batteria dal vivo perché penso che questo sia uno degli strumenti più potenti, espressivi ed organici. E ovviamente contribuisce anche a far suonare umana la mia musica.
Davvero, davvero non sono religiosamente devoto all’analogico o al digitale. Ci sono feticisti dell’analogico che suonano l’uno uguale all’altro, un’accusa che ricevono di solito molti musicisti che usano il laptop. L’obiettivo dovrebbe essere fare buona musica, non focalizzarsi sugli attrezzi. Credo oltretutto nell’idea di limitarsi, specie perché la tecnologia oggi può essere un labirinto.
Tony Buck proviene da una band molto ben conosciuta come i Necks ed è la mente del progetto Transmit, nel quale tu suoni il basso. Tony compare anche in questo tuo album solista. Sì, è una domanda scontata, scusa: che hai imparato da lui?
Un sacco di roba. Andare nelle profondità del groove e concentrarsi sulle idee fondamentali. Tirar fuori molto da poco, facendo crescere le cose in modo organico e minimale. È anche la persona che mi ha incoraggiato a pubblicare un disco solo mio, che è quello che costringe un artista a pensare davvero a cosa vuol fare.
Ho visto come tratta il processo di registrazione: come una cosa totalmente trasparente, non come un’arte suprema tipo magia nera, e questo mi ha liberato tantissimo. Molta gente avrebbe storto il naso rispetto a come abbiamo registrato la batteria per Hold, ma non gliene importava nulla, era solo importante suonare. Mi ha anche mostrato come essere un buon leader di un gruppo. Transmit è il progetto di Tony e lui ha creato una band che può mettere in pratica tutte le sue idee, ma senza che questo voglia dire stressare le persone o aver su di loro aspettative irrealistiche.
Preferisci lavorare sui tuoi progetti o pensi sia più interessante creare qualcosa con altri musicisti, nel contesto di una band? O semplicemente vuoi suonare? Da solo o in team, non ha importanza…
Dovevo fare questo mio album da solo, con l’eccezione di Tony che ha realizzato le mie idee rudimentali riguardo al drumming con la sue solite maestria e finezza (il che è stato comunque possibile perché in passato abbiamo condiviso vocabolario e riferimenti). È stato un viaggio che mi sono imposto al fine di esplorare il tipo di musica che voglio realizzare. Suonare con gli altri è importante perché impari molto dalle sfide che questo comporta. Ciononostante ho sempre sentito il bisogno di qualcosa di mio per essere interamente soddisfatto. In ogni caso non biasimo chi non ha voglia di sentirsi le mie tracce insistenti, intense, scure e atmosferiche. Non è un mood per tutti.
Ripetizione, pesantezza e, appunto, atmosfere scure: percepisci una sorta di affinità elettiva tra Hold e il lato più sperimentale del metal emerso in questi anni? O con gli Swans (quindi coi Godflesh…), come suggerisce il comunicato stampa?
Non è scritto da me, ma mi sta bene, perché gli Swans sono sempre stati una grossa influenza. Per questo disco lo spunto è una combinazione di cose diverse da quelle che tu nomini, ad esempio i miei molti anni a Berlino e la mia esposizione ad alcuni degli strumenti e ad alcune delle idee utilizzate nel campo della musica elettronica. Una volta ho fatto da assistente al compositore Phill Niblock e ho avuto modo di vedere come lui impili livelli e livelli di note che sono vicine quanto a pitch per formare queste masse scure pulsanti, poi ovviamente ha contato anche l’aver suonato insieme a Tony Buck negli ultimi cinque anni. Oltretutto alcune idee di Hold datano 1997, quando studiavo Sound Art & Design a Londra. Quindi non penso sia qualcosa di legato a una scena specifica emersa negli ultimi anni. Forse è successo che un’ondata di artisti si è sintonizzata sullo stesso bisogno, probabilmente ci siamo tutti stancati delle solite formule rock e probabilmente siamo tutti entrati in contatto con – e influenzati da – una moltitudine di musiche esterne alla nostra.
A Berlino gruppi come Godflesh e Swans fanno concerti in uno dei più noti club techno del mondo, il Berghain, e tu ci trovi gente a cui piace sia la techno pesante del club, sia queste band. Quindi mi par di capire che ci siano idee ed energie simili in entrambe queste forme di musica.
Ho ascoltato molte volte il tuo disco e lo considero molto coeso, per così dire. Ha il suo sound ben distinguibile. Come lo hai trovato? Che avevi in mente prima della registrazione?
Volevo trovare il modo di generare la musica il più innocentemente possibile, per evitare idee premeditate e cliché. Sapevo anche che volevo suonare pesante e incessante con basso e batteria, ma ero ben cosciente che in potenza tutto questo poteva risultare noioso. Ogni volta che però provavo ad applicare la solita chitarra elettrica sopra la mia musica, tutto questo suonava come qualcosa che avevo già sentito prima… o anche a una versione peggiore di qualcosa che avevo già sentito prima… Sembrava ogni volta carico di riferimenti, probabilmente perché la chitarra elettrica standard è già stata usata ed esplorata in modo brillante, quindi per me c’era poco da scoprire.
Ho ricordato qualcosa che ho imparato da Henke grazie a qualcuna delle sue tracce techno, cioè che una struttura rigida può essere integrata bene con un campo sonoro che cambia lentamente. Quindi è stato come se qualcuno m’avesse aperto la porta a calci quando ho iniziato a utilizzare il mio basso come sorgente sonora e la sintesi granulare come un metodo per estendere i suoni. Ho prodotto livelli di sopratoni bizzarri, svuotati dal fraseggio rock standard, ma ancora connessi all’universo noise-rock. Aggiungere modulazione ha creato uno sviluppo che poi ha ispirato i miei ritmi e le mie linee di basso. Non si è trattato di una scoperta improvvisa, ho impiegato sei mesi per trovare la “mia zona” e questo ha comportato passare attraverso una serie di schemi diversi. Penso sia importante che uno utilizzi del tempo per capire ciò che lo prende davvero, perché essenzialmente tutto quello che ho fatto è fondere tre cose che mi appassionano: sound design astratto, basso elettrico noisy e la batteria live. Il disco ha richiesto due anni di lavoro e io credo che questo lasso di tempo abbia influenzato il tutto.
Hai suonato con Andrea Belfi. Noi lo abbiamo intervistato e adoriamo tutti il suo album Natura Morta… e lo abbiamo pure visto e filmato dal vivo! Stai pensando a fare qualcosa con lui e Alexander Rishaug?
Andrea è sul serio un musicista fantastico e anche io sono rimasto molto colpito da Natura Morta. Io, lui e Alexander siamo amici, qui a Berlino. Abbiamo improvvisato insieme in un paio di show, ci siamo molto divertiti e adesso stiamo andando in studio a sperimentare. È un progetto molto innocente ed esploratorio e ancora embrionale. Ma loro sono artisti che rispetto molto e mi sento fortunato a suonare con loro.
Belfi è anche sulla tua stessa etichetta. Di recente abbiamo parlato molto di alcune buone uscite Miasmah: Kreng, B/B/S, Shivers… Secondo te, quale è il terreno comune tra tutti voi?
Forse maturità o esperienza di vita, mescolate una tendenza a fuggire in mondi sonici. Poi logicamente Erik Skodvin ci lega tutti. Sono ancora piuttosto meravigliato dal pubblicare musica al fianco di tutti questi ragazzi.
Avremo l’opportunità di vederti suonare dal vivo in Italia con uno dei tuoi progetti?
Lo spero proprio. A proposito di nomadismo, il mio obiettivo è quello di portare Hold in più posti possibili. Non ho fatto la musica solo per me, la voglio condividere e, come il disco suggerisce, nella forma di una live band. C’è anche il mio side project col batterista Tomas Järmyr che si chiama Barchan, ed è piuttosto attivo. Si tratta di una combinazione sperimentale e free form del live processing del mio basso con il modo di suonare la batteria caotico, virtuoso e organico di Thomas. In ogni caso l’Italia è decisamente sulla mia lista dei desideri. Credo che gli italiani abbiano molta attenzione per i dettagli più sottili, perciò penso che sarebbe una sfida interessante suonare per il vostro pubblico.