J.H. GURAJ, Steadfast On Our Sands
ZimmerFrei è un collettivo di videoartisti di base a Bologna: al loro lavoro nel tempo si sono accostati musicisti come Arto Lindsay, Andrea Belfi, Stefano Pilia, Manuele Giannini, Vittoria Burattini, Manuel Agnelli, solo per fare qualche nome. Nel 2015 girano un documentario a Terschelling, un’isola olandese di quasi 5000 abitanti, un tempo terra di pescatori e marinai, quindi di allevatori di cavalli e bovini, e attualmente convertita al turismo e al biofarming. Non sono riuscito a trovare in rete molto più del trailer: il documentario, da cui sono tratti i quattro pezzi di questo disco appena uscito, me lo immagino come una versione aggiornata de “L’Uomo di Aran” di Flaherty (che, per la cronaca, non dura nove tempi come voleva farci credere il caro Paolo Villaggio, ma poco più di un’ora). Non che serva più di tanto un supporto visivo alla musica, come succede con molte delle uscite targate Boring Machines, spesso veri e propri film senza immagini. L’autore di Steadfast On Our Sands, Dominique Vaccaro, cresciuto nella comunità albanese cosentina ma da tempo in terra felsinea e parte integrante del progetto Bemydelay con Marcella Riccardi, pare abbia “rubato” il nome da un raccoglitore di erbe albanese incontrato sui monti: se lo avesse anche accoppato, potrebbe essere un buon soggetto per un film di Jarmusch.
Il disco è composto da quattro tracce che descrivono brutalmente quel poco o niente del contesto che le ha ispirate: mucche, cavalli, uomini e l’isola. “Cows” parte come un blues pigro su cui si inserisce strada facendo il bottleneck, un placido ruscelletto che si ingrossa, si fa torrente e sfocia in una pozza torbida di suoni. In “Horses” i field recordings di Massimo Carozzi (delle voci, dei colpi, forse qualche passo, un nitrito) diventano presto un corpo unico con la chitarra. Le corde sfregate, qualche pezzo di batteria, sfrigolii finalmente sintetici in mezzo a tanta natura e la sensazione che i suoni inizino a scappare in tutte le direzioni. In “Men” il tempo sembra fermarsi, si fa largo una lentezza estatica in cui chitarra e batteria sembrano parlarsi senza capirsi, quasi una metafora dell’incomunicabilità (se non avessi esaurito i bonus cinematografici chiamerei in causa Michelangelo Antonioni). “Island” è un lungo drone bagnato di rugiada che si dipana leggero, più contemplativo che meditativo: è il pezzo che mi piacerebbe ascoltare la mattina al risveglio.