IZTOK KOREN, Praznina / Emptiness
… All songs performed by Iztok Koren on banjo, tree string banjo, gembri, electric guitar, modular synth, effect pedals, contact mics, percussions, steel drum and balafon. Recorded without overdubbing in remote cabin in Slovenian hills on 7th may 2022…
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Devo realmente spiegarvi come nella necessità di esprimersi – soprattutto quando ciò che si aveva preventivato scompare e le mani prudono alla ricerca di un modo per farsi sentire – si smani per fare?
Dobbiamo datare questa pura, onesta espressione onesta, non filtrata di musica? E sia.
Iztok Koren è membro di quei Širom che, per un allinearsi del fato, sembrano essere la più pura espressione della musica out-folk attuale. In solitaria sembra entrare nelle pagine di Charles Fréger, diventare quel Wilder Mann arcaico, selvaggio e magico. Nella Valle della Sava, in Slovenia, sabato 7 maggio, si prepara a un parto. Nasce Praznina o Emptiness che dir si voglia, il vuoto. No, non nasce, ma nemmeno viene esorcizzato: semplicemente gli offrono la possibilità, finalmente, di parlare. Ne escono latrati bui, note torbide che risuonano in quelli che sembrano vecchi silos, pozzi, antri. A tratti, poi, gli strumenti si presentano anche con la voce che di norma riconosciamo loro, facendo luce su un tormento interiore, come nella quarta traccia. Nelle corde mosse da Iztok Koren si sentono la campagna, il tremore, il conflitto, il tempo passato, il vibrare dell’esperienza, il non poter fare a meno di trasmettere qualcosa. Si sente l’intensità della solitudine, su brani, come il sesto, dove le parole mancano ma sembra di conoscerle internamente, nei nostri cuori. A tratti sembra di ascoltare dei desolati sentori western, se questi potessero aver improvvisamente cambiato coordinate per unirsi ad una strumentazione che pare magica nella sua trascendente essenzialità. A tratti si sente come l’esplorazione stia prendendo troppo la mano del musicista, inebriato dal suono ed incapace di chiudere in maniera più concisa e lineare le sue scorribande, eccedendo qua e là nella lunghezza dei brani. Ma sono peccati veniali e riconducibili allo stato della sessione stessa, immagino, al voler intervenire il meno possibile lasciando tutta quanta l’ispirazione e lo sfogo nelle mani di Iztok. Meglio, molto meglio quando l’atmosfera si fa cautamente plumbea e marziale, oppure quasi vicina ad una certa idea di rintocco marino come nella traccia numero 10, oppure un mantice di respiro e qualche piattello, come nella successiva.
La performance termina con una melodiosa ed intensa discesa, fino a valle, alla civiltà, a raggiungere i sodali. Vedremo: il traguardo di norma è la parte meno interessante del percorso.