ISTVAN
Gli Istvan sono uno dei gruppi che ho maggiormente apprezzato nell’ultimo periodo. Un suono intriso di psichedelia, in bilico fra il deserto e la montagna, un viaggio rigenerante, dal forte gusto mistico, in un universo sospeso. Hanno esordito con un meraviglioso vinile su Bronson Recordings e ho colto l’occasione per scambiare due parole con la band.
La copertina che avete scelto per la cover del vostro primo vinile è inquietante ma allo stesso tempo ammaliante. Potete spiegarmi il processo che vi ha portato a crearla? So che è stata disegnata dal vostro batterista, che si firma con il nome di Sabbione. Ne siete soddisfatti? Per i prossimi lavori continuerete a fare “tutto in casa” o credete che vi affiderete anche ad altri disegnatori?
Sabbione: Per disegnare la copertina ho aspettato che il disco fosse registrato per intero. In un secondo momento mi sono approcciato alla musica con orecchio da ascoltatore (nei limiti del possibile) cercando di unire le varie figure che mi si palesavano in testa. Il lavoro finito è un collage di 15 disegni, fatti “di pancia” con pennino e inchiostro di china e montati in digitale. Questa soluzione è piaciuta subito sia a Carlo Teo, sia a Giacomo, e abbiamo deciso di renderla definitiva. Per il prossimo disco vedremo di adottare la migliore soluzione a registrazione finita, la coerenza fra immagini e suoni è cosa delicata.
Per gli Istvan e l’universo che ruota loro attorno quanto è importante il fattore grafico e simbolico? Può essere una sorta di passaggio privilegiato per comprendere e capire meglio ciò che suonate?
Senza dubbio l’assimilazione e l’interpretazione di simboli è uno strumento aggiuntivo per l’ascoltatore attento. Del resto ciascuno di noi è prima di tutto, come diceva qualcuno, homo symbolicus. Siamo fortunati che il nostro principale produttore di simboli (Marco) sia anche un membro di Istvan, il processo risulta sicuramente più immediato e spontaneo.
Domanda per Sabbione: i tuoi lavori sono molto misteriosi ma allo stesso tempo catturano la mia attenzione e curiosità. Quello che mi piace è il livello di dettaglio con cui sono realizzati e il fatto che si prestino ad essere interpretati in tantissimi modi. Quando hai capito che il disegno faceva per te? Come realizzi i tuoi progetti e da chi trai ispirazione? Il tuo modo di creare influenza pure il tuo modo di fare musica e viceversa? Spesso inserisci anche dei testi in ciò che disegni… Sono frasi scritte da te oppure prese da libri che ti hanno particolarmente colpito? Se sono tue, da cosa vieni ispirato nello scriverle?
Sabbione: Grazie Paso! Disegno con cognizione da quando è cominciato il progetto Istvan. Penso sia stato naturale il bisogno di esprimere certi richiami onirici a cui non avevo mai dato troppa importanza. La musica è una forte influenza per il disegno, così come gli scenari naturali che ci circondano e un certo tipo di letteratura fantasy/weird. Non associo quasi mai parole ai disegni, né utilizzo una base a matita (sempre nei limiti del possibile), per avere sempre quel margine d’improvvisazione in tutto che è a mio parere la vera soddisfazione.
Il suono degli Istvan affonda le sue radici nell’heavy psych anni Settanta, e sembra sospeso letteralmente nel tempo e nello spazio. Mi piace definirlo un suono in lenta e inesorabile espansione, che presenta allo stesso tempo elementi caldi ed elementi freddi. Siete d’accordo?
Questo dualismo si può cogliere mettendo a confronto “Kenosis” e “Mire”, per certi versi due poli opposti. “Kenosis” rappresenta l’ascesa catartica alla cima della montagna, luogo di solitudine fredda e verticale. “Mire”, sempre usando una metafora paesaggistica, è un viaggio da un acquitrino fangoso verso una spiaggia bianca, nuova nascita. Il disco è anche una riflessione intorno al tema del cammino (circolare) e della destinazione, pensiamo che questo si sia riflettuto inevitabilmente nell’andamento della composizione.
Il fatto che, come accennavo prima, il vostro sound presenti elementi caldi e freddi, mi rimanda immediatamente a due luoghi ben precisi: il deserto e la montagna. Da un lato incorporate riff rocciosi, dall’altro invece innestate suoni languidi e lenti. Vi ritrovate in queste mie parole?
Assolutamente. Da una parte il deserto tentatore degli stilofori e degli asceti; dall’altra le vette immacolate e interdette all’uomo. Questi sono stati alcuni dei luoghi immaginari di riferimento mentre componevamo.
Il vostro 12″ è uscito per Bronson Recordings, che è una diretta emanazione di Bronson Produzioni, che racchiude anche l’omonimo locale. Il fatto di esser stati prodotti da un’etichetta così giovane, ma con ramificazioni estremamente forti in vari generi musicali, può effettivamente esservi d’aiuto? Il fatto poi che abbia prodotto gruppi anche molto diversi fra loro, potrebbe aprirvi le porte verso un pubblico che magari non è abituato ad ascoltare gruppi tipo il vostro?
Secondo noi aprirsi a un pubblico eterogeneo è un punto di forza, perché crediamo che questo disco sia difficilmente rubricabile sotto un genere preciso. Essere entrambi “giovani” (noi e l’etichetta) permette una crescita reciproca e costante. Ultimamente, poi, è stato prodotto da Bronson Recordings il 7” dei Chicos De Nazca, quindi la direzione di marcia sembra essere anche quella di un interesse verso la scena psych a cui per certi versi apparteniamo.
Gli Istvan utilizzano un approccio diverso dal vivo rispetto alla sala di registrazione? Voglio dire: che tipo di differenze riscontrate rispetto al suonare dal vivo? Cambiate qualcosa nel suonare le tracce del vinile live, oppure cercate di far rimanere immutata la costruzione del pezzo?
Abbiamo registrato tutto in presa diretta, aggiungendo solo qualche livello di chitarra o rumore in un secondo momento. Essendo alcune parti composte da improvvisazioni, abbiamo deciso di mantenere questo metodo più rozzo ma anche maggiormente fedele a quello che è il nostro approccio al palco. Non suoniamo mai come da registrazione proprio perché abbiamo volutamente lasciato parti “aperte” nei nostri brani; in questo senso manteniamo un approccio da live jam.
Ultimamente in Italia sembra che il verbo del doom, dello sludge e dell’heavy psych si sia risvegliato, generando una moltitudine di gruppi quasi sempre ottimi. Che opinione vi siete fatti? C’è qualche band che ultimamente vi ha colpito?
Sì, sia in Italia, sia all’estero la sensazione è quella di una nuova primavera. Dalle nostre parti consigliamo senz’altro i compagni Pater Nembrot, Void Of Sleep e San Leo. In generale – per fare alcuni nomi – Elder, All Them Witches ed El Paraiso Records si stanno muovendo in direzioni inedite e sicuramente notevoli per gli amanti dei generi da te citati.
Voi siete un terzetto. Non vi è mai venuta in mente l’idea di prendere una seconda chitarra?
No, siamo già troppi in tre! Abbiamo trovato un equilibrio difficilmente raggiungibile altrimenti. Nonostante questo, per il prossimo disco coinvolgeremo dei collaboratori in sede di registrazione.
Il vostro sound non è mai lineare, ma anzi si presta spesso e volentieri a cambi di rotta. Questa mia considerazione mi porta a chiedervi se in futuro sperimenterete ancora di più…
Pensiamo sia inevitabile; questo primo album è stato parte di un percorso di graduale presa di coscienza. Si tratta di definire un’identità e cambiare di conseguenza le nostre aspettative. Cerchiamo sempre di non legarci a formule o strutture chiuse durante la fase di scrittura, conservando per quanto possibile un processo di composizione spontaneo e non derivativo. Questo approccio sarà mantenuto anche per il prossimo lavoro, quindi sicuramente subiremo cambi di rotta inaspettati.
In futuro, durante i vostri live set, vi avvarrete del supporto visivo di film o immagini da proiettare mentre suonate? Credete possa essere un’esperienza sensoriale ed emotiva ancora maggiore sia per voi che suonate, sia per chi vi viene a vedere? Se sì, che tipo di materiale visivo vi piacerebbe utilizzare?
Al momento abbiamo in mente qualche pellicola che potrebbe fare al caso nostro, in particolare “Hard to be a God” (Trudno byt’ bogom) di German, viaggione in un medioevo nero. Ci vogliamo anche attrezzare per creare un visual. Prima di tutto però serve il proiettore!
Siete un gruppo quasi totalmente strumentale, ma ogni tanto la voce fa capolino e io resto estasiato ogni volta che l’ascolto, visto che è come una litania. Come mai avete optato per questa scelta? In futuro ci sarà maggior spazio per essa?
Principalmente perché nessuno di noi ha una voce troppo memorabile (a parte Marco, che è bravo a far tutto). In realtà, secondo noi, è una coincidenza abbastanza fortunata perché in questo modo le poche parti di cantato assumono un aspetto quasi liturgico e sacrale, come hai notato anche tu. Non sappiamo ancora se ci saranno più parti cantate nei brani, sicuramente faremo un lavoro più tecnico sulla voce (cori, armonie). Possiamo dirti che stiamo scrivendo alcuni intermezzi acustici dove, probabilmente, canterà Marco.
La figura di Silesio troneggia sulla concezione e la costruzione del vostro debutto. Vi va di introdurcelo un po’, per chi non lo conosce? Cosa vi affascina di questo personaggio? Come credete abbia potuto influenzare gli Istvan?
Senza entrare nei dettagli tecnici, Angelo Silesio (Johannes Scheffler) è un poeta secentesco di lingua tedesca con una forte impronta mistica. Da una sua raccolta di epigrammi, Il Pellegrino Cherubico, abbiamo tratto il concept di “Kenosis”, che è poi quello portante dell’intero album. La chenosi è appunto il processo di svuotamento tipico dei mistici e degli anacoreti e, nonostante appartenga al vocabolario teologico della religione cristiana, è trasversale a tutte le forme meditativo-spirituali intesa nel suo senso più generale di vuoto. Indipendentemente dalla fascinazione che queste pratiche possono produrre, è interessante porsi la domanda intorno alla loro attuabilità in un tempo come il nostro. Siamo anche influenzati dalla letteratura sci-fi e weird (Lovecraft, Dick, Ligotti…), di cui siamo avidi consumatori.