ISLET, Illuminated People
Da Cardiff, uno dei migliori dischi di pop destrutturato e mutante dell’anno. Gli Islet seguono i dettami degli schemi DIY del passato: niente social network, solo fanzine cartacee a diffusione locale, niente viral marketing, ma ideologia musicale da “comune”, più simile a quella dei Broken Social Scene che dei Gayngs, per chiarire subito l’impronta. Tutto inutile, però, se la sostanza non fosse all’altezza dello “stile”. Per fortuna i dubbi sono fugati già da “Libra Man”, pezzo d’apertura di nove minuti nel quale si ascolta quel dualismo strumentale che sarà linea guida di tutto il disco: organi distorti e in acido in sovrapposizione a chitarre elettriche “a vampe”, sorretti da ritmica anthemica e da una struttura globale articolata e contorta, per quanto, a suo modo, “semplice”. Illuminated People, insomma, è un disco sghembo, ma con un punto di arrivo preciso: il pericolo dispersività è scacciato da melodie vocali tra wave-punk e corrosività avant. Il sole però splende e filtra comunque, anche se dissimulato da una tensione elettrica mai doma e da pattern ritmici spesso fratturati che rimandano a un funky alcolico, senza (s)cadere in territori troppo cerebrali.
“This Fortune” svela la prima apparizione vocale femminile, tra dolcezza angelica e impatto da Lydia Lunch appena appena trattenuto, “Entwined Pines” rimanda a dei Deerhunter più estroversi, con un’attitudine dreamy che emerge leggiadra, soprattutto nel cantato, e s’infrange nel finale metallico. “What We Done Wrong” si palesa soffice per deflagrare poi in muscolarità chitarristiche e melodie tribal/wave, come delle Slits meno scombiccherate. Palma del miglior titolo alla danza sciamanica di “A Warrior Who Longs To Grow Herbs”, cambio totale di registro con “We Bow”, piccolo folk lo-fi, con chitarrina acustica mesta e voce malinconica, un bozzetto pop da fare invidia ad Adam Green e Kimya Dawson. “Filia” è un duetto ansiogeno, con una chitarra riverberata che funge da faro, “Funicular” farà contenti i fan dei Dirty Projectors, “Shores” quelli dei Devo e dell’indie pop (!), “A Bear On His Own” (gran titolo anche questo) si riallaccia al pezzo d’apertura, prendendo però una piega più giocosa, eppure malata allo stesso modo. C’è della buona luce nelle teste degli Islet.