IRON MONKEY, 9-13

È ormai evidente che il fenomeno delle reunion non avrà mai fine: siamo condannati a subire il ritorno di gruppi che quando erano attivi non avevano molto riscontro da parte del pubblico e oggi, grazie ad internet e agli anni che passano, si riformano per riprendersi ciò che spetta loro. Alcuni ce la fanno, altri ci regalano un imbarazzo unico, del quale faremmo volentieri a meno. Questo 2017 verrà ricordato tra le altre cose come l’anno in cui si sono riformati gli Iron Monkey. Così come molti dei pionieri dello sludge, la band inglese non ha mai goduto di una grandissima popolarità durante i suoi anni migliori, pur essendo finita quasi subito sotto Earache e avendo suonato al prestigioso Dynamo Open Air. Quella che oggi è una leggenda ai tempi era una banda di disadattati, che oltre a suonare davanti pochi spettatori affrontò delle concrete difficoltà economiche, grazie anche al supporto inesistente dell’etichetta (che nel tempo li ha ristampati più di una volta senza consenso, traendone anche un certo guadagno).

Oggi, a distanza di quindici anni dalla morte del mai troppo compianto Johnny Morrow, i due ex chitarristi Jim Rushby e Steve Watson riesumano questo monicker: solo loro provengono dalla line-up originaria e, oltre a occuparsi dei propri strumenti, pensano alla voce (Rushby) e al basso (Watson), mentre al posto di Justin Greaves c’è Scott “Brigga” Briggs dei Chaos UK. Se i presupposti già fanno nascere molti dubbi, il risultato è a dir poco pietoso. 9-13 presenta il classico stile della band britannica: riff sabbathiani che incontrano le strutture ritmiche dei Black Flag per poi ripiombare in rallentamenti doom molto malati. L’unica differenza è che i ritmi sono un po’ più serrati e più tendenti verso l’hardcore (vedi un pezzo come “Mortarhex”, veloce e incalzante). C’è un grandissimo problema di fondo: la voce di Rushby è penosa: passare dal timbro unico e irripetibile di Morrow a uno uguale a mille altri è un colpo bassissimo, una scelta evitabilissima e da evitare. La produzione è decente e i suoni delle chitarre non sono malvagi, ma i pezzi sono di una banalità disarmante, fatti di riff scontati e prevedibili che sanno molto di “compito ben svolto”. Stessa cosa per la copertina, col classico logo con la scimmia nel pentacolo (usato già per la riedizione dei loro due dischi su Earache), altro segno di come non ci sia stato chissà quale sforzo dietro la pubblicazione di questo full length.

Non è dato sapere le ragioni e le intenzioni che hanno portato al ritorno degli Iron Monkey, ma è certa la nostra delusione. Il debutto omonimo e il successivo Our Problem sono e rimangono due pietre miliari senza tempo, che hanno contribuito alla nascita dello sludge come oggi lo conosciamo e che hanno spinto migliaia di persone a formare un gruppo seguendo quello stile. Ritornare dopo vent’anni con una line up stravolta e con un lavoro del genere non era necessario. Rushby e Watson avrebbero potuto benissimo ripartire da zero con un nome diverso e con uno stile magari simile: avrebbero sicuramente avuto un contratto discografico prestigioso come ce l’hanno adesso. 9-13 è noioso e prevedibile, ed esprimere opinioni del genere non fa piacere a nessuno.