IRON MAIDEN, The Book Of Souls
Ho scoperto gli Iron Maiden che ero un pischello al suo esordio in un liceo romano negli anni Ottanta, roba tosta, non proprio una passeggiata per un metallaro, ma tanto ero già un nerd… che male poteva fare aggiungerci sopra qualche borchia e un po’ di insulti nuovi da parte dei soliti coatti? Era uscito da qualche mese Killers e le riviste musicali alternavano gli Irons a nomi che al solo farli si rischia ancora un infarto, saremmo ben oltre la pubblica decenza. Da lì in poi li ho seguiti con passione fino alla prima chance di vederli dal vivo qualche anno dopo, a Firenze, durante il tour di Somewhere In Time, compresa qualche tempo prima la mega-fuga da scuola per vederci la VHS di Live After Death arrivata non so come in mano a un amico, roba da veri e propri carbonari del metallo. Poi un po’ la fotta è calata, dischi meno incisivi, nuove scoperte musicali, compresa una decisa estremizzazione negli ascolti e con l’arrivo di Blaze Bayley purtroppo ho smesso di ascoltarli del tutto, davvero troppo anche per chi si era spinto fino al non proprio esaltante Fear Of The Dark. Neanche “il rientro” mi ha coinvolto più di tanto, ho preferito dedicarmi a sostituire i vecchi nastri con i cd usciti in edicola, ammetto di aver ascoltato distrattamente Brave New World e di aver schifato il successivo Dance Of Death causa copertina inguardabile e ingiustificabile, mi dico sempre che prima o poi devo dargli una chance. Gli ultimi due mi hanno un minimo incuriosito, ma tutto lì, nessun vero fremito, nulla di realmente motivante per spingermi all’acquisto. E allora perché il nuovo The Book Of Souls mi ha fatto tornare la voglia di possedere un disco dei Maiden, oltretutto un doppio album, non proprio la portata più semplice da digerire per uno che ha sempre ritenuto il loro pezzo lungo per eccellenza una palla mostruosa (già sento gridare all’eresia)? Probabilmente un misto di fiuto e rincoglionimento senile, un po’ di affetto per lo zio Bruce e per le sue battaglie contro la malattia. Una buona parte l’ha giocata anche la visione del film Flight 666, sia come sia ho riprovato il fremito dell’attesa per un nuovo disco della vergine di ferro e l’ho addirittura chiesto in regalo, senza evitare un misto di curiosità e paura di trovarmi di fronte al classico prodotto di mestiere, magari una porcata paurosa vista l’ambizione del progetto e la lunghezza del tutto.
Dopo l’ammissione di tradimento e abbandono, immagino i fan dell’ultima ora (quelli che magari gli Iron Maiden li hanno scoperti con Fear Of The Dark) chiudere la pagina virtuale. Vero, non sono certo un amante degli album seguiti al ricongiungimento con Bruce e Adrian e ho un bel buco nella mia conoscenza specifica, eppure mi arrogherò il diritto di dire la mia. La dirò da amico di lunga data della band, da uno della vecchia guardia e con la consapevolezza di non essere in questo del tutto professionale. Lo farò perché devo qualcosa a questi signori e perché ritengo che questo nuovo disco meriti davvero di essere ascoltato anche da chi come me se li è un po’ persi per strada, perché in fondo la musica è anche questo, è innamorarsi e lasciarsi e poi ritrovarsi per caso e scoprire che qualcosa sotto la cenere ancora cova, soprattutto di fronte a un album come The Book Of Souls, di cui salvo buoni tre quarti e di cui una metà mi fa provare brividi dimenticati. Il mestiere c’è, così come qualche caduta di stile (come lo spingere le auto-citazioni un po’ troppo oltre) e qualche scelta non condivisa/comprensibile, ma ci sono anche tanta passione e una buona ispirazione, ci sono brani solidi e alcuni veri anthem degni del passato, soprattutto c’è un lavoro che nel suo complesso funziona bene anche come doppio e non annoia, facendosi ascoltare fino in fondo. Fino al temuto pezzo lungo che alla fine è anche un vero trionfo e una sfida vinta con la classe che solo i grandi possono tirar fuori arrivati a questo punto della loro carriera, perché – sono pronto a scommetterci – “Empire Of The Clouds” sarà un futuro classico, oltre ad essere già uno dei momenti più riusciti della nuova incarnazione della band. The Book Of Souls è alla conta finale una vittoria portata a casa senza dubbi di sorta, proprio perché ad essere sinceri e volersi attirare ancora più critiche appare più a fuoco di gran parte del materiale successivo a Seventh Son Of A Seventh Son, e parliamo del 1988. Inutile andare al track by track, che tanto in rete ne troverete centinaia e da parte di penne ben più qualificate, ma se potete accettare il parere di un antico fan, il consiglio è quello di dargli una possibilità, anche se come me avete tradito e abbandonato la vergine da un pezzo, anche se “però i dischi vecchi non si battono”, perché se un po’ di intuito mi è rimasto e qualcosa di musica ancora capisco, The Book Of Souls merita tutto il tempo speso e l’attesa durata fin troppo a lungo. Tutto qui, senza girarci troppo intorno e dritti al punto. Pace.
Tracklist
Disc 1
01. If Eternity Should Fail (Dickinson)
02. Speed Of Light (Smith/ Dickinson)
03. The Great Unknown (Smith/Harris)
04. The Red And The Black (Harris)
05. When The River Runs Deep (Smith/Harris)
06. The Book Of Souls (Gers/Harris)
Disc 2
07. Death Or Glory (Smith/Dickinson)
08. Shadows Of The Valley (Gers/Harris)
09. Tears Of A Clown (Smith/Harris)
10. The Man Of Sorrows (Murray/Harris)
11. Empire Of The Clouds (Dickinson)