INSTITUTE, Subordination
Il secondo album dei texani accasati presso Sacred Bones pare fatto apposta, suo malgrado, per dare ulteriore conferma a chi suggerisce una sorta di analogia tra quanto accadeva musicalmente ieri sotto Reagan e oggi sotto Trump. Analogia suggestiva ma probabilmente indimostrabile (e forse anche un po’ inutile), anche se il sound degli Institute sembra preso di peso dai tempi d’oro del punk a stelle e strisce più becero, spruzzando catrame su di un disagio politico/sociale più che palpabile tra le spire dei nove pezzi che formano Subordination.
La produzione sporca e abrasiva non fa che risaltare il potenziale corrosivo di un album che se la gioca tra Germs e Wipers, con in più un retrogusto anarchopunk britannico, non tanto perché ne riprenda l’agenda politica, quanto per una sorta di scoramento riottoso, e questo non solo per il latrato à la Steve Ignorant sull’immediato orlo di una crisi depressiva con cui il vocalist esaspera le rasoiate chitarristiche e le grezze squadrature postpunk della sezione ritmica. Un generale sentimento di acida alienazione anima i ventisei minuti di quest’album, e l’atmosfera diventa ancora più acre quando gli Institute rallentano i ritmi e si danno a dissonanze minacciose (come in “Oil Money”) o agli spunti deathrock di “All This Pride” e “Human Law”. Niente di rivoluzionario, per carità, ma se avete voglia di farvi raschiare per benino i padiglioni auricolari da un po’ di rauco malessere, Subordination è qui per voi.