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INGRID LAUBROCK, Dreamt Twice, Twice Dreamt

La scorsa settimana stavo per recarmi in un negozio. Sono stata distratta da una telefonata e dieci minuti dopo un forte rumore mi ha scosso: sono uscita e ho scoperto che un palazzo di tre piani adiacente a quello dove dovevo andare io era collassato in una pila di macerie. Viviamo tempi bizzarri come un sogno, senza avere l’uscita di sicurezza che è la possibilità di svegliarci. Così la sassofonista (soprano e tenore) e compositrice tedesca in chiusura del libretto di questo doppio corposo ed enigmatico lavoro, ancora una volta pubblicato da Intakt Records. Una musica sorvegliata, nitida eppure anarchica, sfuggente, densa di un vaghissimo senso di minaccia, selvatica ed austera, imprendibile. Come in un racconto fantastico senza effetti speciali, tutto è come non sembra, ogni luogo è un capitolo di un volume di psicologia, ciascun dettaglio una mappa di universi nascosti e mondi lontanissimi: Componendo, era come se la musica fosse una matrioska, o una mappa di una mappa, e trovavo nuove composizioni stranamente familiari all’interno della musica che avevo già scritto. Una sorta di traduzione di lingue dimenticate eppure note, gesti prima che alfabeti, la vertigine dello stare al mondo e del sentire nel sangue che poi non saremo. Ombre, fughe, promesse a squarciare un cielo strumentale di nubi basse, orizzontali, un requiem al mondo che conoscemmo e bruciammo, un falò alle intenzioni passate, future, presenti. Musica (jazz? Contemporanea? Domande oziose e vane, semplicemente è scienza del suono tra dubbio e progetto, pedagogia del transito e della sparizione) che afferra alla gola con artigli delicatissimi e ci lascia a terra consegnati a un silenzio diverso, nuovamente gravido di attese e del senso di una fine che avanza a grandi falcate in questi giorni scuri. Il nucleo fisso di questa nebulosa in movimento è formato, oltre che dalla Laubrock, dal pianista Cory Smythe (magnifico davvero il suo Accelerate Every Voice, uno dei migliori dischi avant-jazz degli ultimi tempi) e da Sam Pluta all’elettronica, di cui abbiamo già avuto modo di ammirare le magie nella spettacolare edizione 2018 del festival di Mulhouse. Ai tre si aggiungono l’arpa di Zeena Parkins, il violino di Josh Modney e la fisarmonica di Adam Matlock nello Small Ensemble, mentre nella EOS Chamber Orchestra tocca al contrabbasso di Robert Landfermann e alla batteria di Tom Rainey. Nelle viscere della terra o nel cielo che una volta era stellato qualcosa si muove, inesorabile: sismografi registrano vibrazioni, strappi, fratture, movimenti di deriva. In un cluster di piano è racchiuso tutto il suono del mondo, del tempo e della vita che dissangua, che dissona.