INFECTION CODE
Gli Infection Code hanno sempre dimostrato coraggio nel rimettersi in gioco e assumersi le proprie responsabilità, un approccio che ha permesso alla loro musica di avanzare lungo un percorso difficile ma non privo di soddisfazioni e, cosa fondamentale, sempre all’insegna della contaminazione tra forme espressive differenti. L’Avanguardia Industriale permette oggi alla band di riannodare i fili con il proprio passato e fa il punto della situazione su quanto e come sia cambiato il suo linguaggio. Abbiamo pensato fosse interessante confrontarci con loro per capire quali conclusioni questa riflessione abbia portato con sé.
L’Avanguardia Industriale fa il punto della situazione sul percorso della band, in particolare rilegge la vostra storia alla luce degli anni trascorsi e di ciò che siete oggi. Che sensazioni vi ha dato guardare indietro e riprendere in mano la vostra musica?
Gabriele (voce): È stata una sensazione molto particolare. Era da parecchio tempo che volevamo fare una cosa del genere. Rileggere e attualizzare alcuni pezzi che ritenevamo importanti della nostra storia, ma che non avevano completamente un’anima rumoristica che rappresentasse al meglio il nostro messaggio. Non è stato facile scegliere le canzoni. Anche perché avevamo poco tempo per arrangiarle, suonarle e registrarle. Doveva uscire tutto nel 2015, anno in cui abbiamo raggiunto un importante traguardo (quindici anni di vita, ndr). Oltre ai pezzi ripescati dalla nostra discografia, abbiamo voluto inserire un inedito e mettere una quinta traccia video che racchiude quarantacinque minuti di visioni create dal regista Ivan Ferrera. Un video molto particolare che ha richiesto una mole di lavoro notevole. Centinaia di minuti di filmati di nostri concerti, rivisti, sezionati e rivisti ancora seguendo il suo prezioso istinto creativo. È un piccolo regalo che abbiamo voluto fare a noi stessi ma anche ai fan. Praticamente è un album. Quasi trenta minuti di musica e cinquanta minuti di video. Dobbiamo ringraziare anche lo staff di Argonauta Records che ha creduto in questo progetto e ha, come sempre, supportato l’uscita con un lavoro di promozione encomiabile. È stato un lavoro di squadra, che ci riempie di orgoglio e ci fa sentire meno soli. Uno sforzo che non ha coinvolto solo noi come band ma anche altre persone al di fuori della band stessa e che in qualche modo ne fanno parte. Un traguardo importante, non solo per il disco in sé, ma per come è stato concepito. Un nuovo punto di partenza e un modo di gettare le basi per un futuro che speriamo sia come in questo momento. Non ci siamo mai sentiti così uniti, coesi ed entusiasti.
Se guardate a ciò che avete raggiunto/ottenuto in questi anni, che tipo di bilancio ne viene fuori? Vi ritenete soddisfatti di tutto o c’è qualcosa che fareste in modo differente?
Viene naturale, guardandosi indietro, vedere che qualcosa avremmo potuto cambiare. Ma in linea di massima le cose che abbiamo fatto dovevano essere fatte in quel preciso istante e fatte in quei determinati modi. Forse abbiamo il rammarico di non avere riflettuto su determinate scelte artistiche. La nostra prerogativa è stata ed è quella della ricerca e della sperimentazione. Una sperimentazione istintiva e molto umorale. A volte abbiamo fatto scelte compulsive nel mettere, nello stratificare il suono aggiungendo livelli su alcune canzoni che non siamo stati poi bravi a gestire in studio durante la fase di mixaggio. Ricordo il periodo di Sterile, in cui la frenesia di buttare su disco qualsiasi idea ci venisse in mente era all’ordine del giorno. Più era una cosa strana, più doveva essere registrata. Il suono doveva essere caotico, enorme, doveva debordare dalle casse ed esplodere. Ma per far rendere tutto questo bisogna essere bravi a crearlo come poi a gestirlo. In alcuni momenti non lo siamo stati. Questo è il più grande rammarico. Poi forse non essere riusciti a trovarci all’estero in contesti consoni alla nostra proposta per svariati motivi. Ma siamo ancora qui e la strada è ancora lunga.
Di sicuro la vostra musica è cambiata e si è evoluta, tanto da prendere sempre più una marcata deriva sperimentale. Quali sono stati gli incontri e gli accadimenti che secondo voi hanno più determinato questa evoluzione?
Durante la nostra esistenza abbiamo avuto molti incontri con altre band, artisti e produttori. Ci sono stati moltissimi avvenimenti rilevanti che hanno caratterizzato la nostra crescita artistica e ci hanno lasciato sicuramente qualcosa di significativo. Quando, soprattutto in questo mondo fatto di passioni e sacrifici, incontri qualche personaggio importante non esiste secondo fine. Sono collaborazioni sì artistiche, ma nascono da un alchimia emotiva che è difficile spiegare a parole. E non c’è bisogno che ci si conosca per forza prima. Questo è accaduto con Billy Anderson, con Eraldo Bernocchi. Due grandi personaggi della scena musicale mondiale che hanno messo il loro bagaglio culturale e il loro lavoro a nostra disposizione, facendo crescere un poco la nostra visione artistica, o meglio ampliandola e facendocela vedere sotto un’altra sfumatura di oscurità. Avvenimenti importanti possono essere stati i cambi di line-up avvenuti durante questi anni. Non è mai bello perdere per strada gente che non crede più nel progetto, è però bello e stimolante trovarne di nuova che porti all’interno della band nuove energie, nuovi dibattiti e idee fresche. E poi gli accadimenti davvero importanti avvengono nelle nostre teste, perché ogni giorni ci svegliamo con qualcosa di nuovo da scrivere e portare in musica.
Dateci una vostra definizione di avanguardia e di industriale (inteso come linguaggio musicale).
Non è facile. Sarebbe scontata una definizione da enciclopedia musicale su cosa sia avanguardia ed industriale. L’avanguardia è provare, sperimentando, facendo ricerca sull’essere artista, umilmente un passo dopo l’altro. Senza presunzione. Senza nessuna rivalsa. Senza peccare di protagonismo. Essere consci, nel proprio profondo io artistico e nel profondo del cuore, di tradurre emozioni affrontando percorsi poco battuti. Che nell’intimo siano una novità, anche se poi magari per altri sono messaggi già sentiti. Non è interessante in sé il risultato finale, ma l’approccio con cui si parte per fare qualcosa di nuovo. L’approccio deve essere sincero, libero da paratie mentali e influenze virali musicali da cui siamo costantemente bombardati. L’approccio deve essere limpido, l’intento lindo e innocente. Industriale è il silenzio che si muove tra una battuta e l’altra mentre si insinua un urlo stridente soffocato da un campionamento disturbato, da una nota di chitarra che violenta il silenzio stesso. Industriale è il rumore del nostro silenzio quotidiano stuprato da un continuo ronzio di fondo che è la monotonia, la noia e l’atto compiuto senza impulso emotivo.
Sposate nella vostra musica radici metal e influenze industrial, per cui mi viene spontaneo chiedervi come vedete oggi la scena metal. Quanta percentuale di attitudine conservatrice e, al contrario, voglia di evolversi e contaminarsi credete domini il mondo metal?
In questo ultimo periodo la corrente conservatrice sta prendendo il sopravvento. Vediamo moltissime band “nuove” che escono fuori con lavori che non hanno quella forza dirompente che avevano album fatti dieci, quindici anni fa. Forse nell’underground più torbido e meno battuto ci sono ancora avvisaglie di puro e incontaminato splendore artistico, anarchico che non segue regole e si lascia trasportare unicamente dalla passione e dalla voglia di proporsi in luci ed oscurità nuove. In ambiti più commerciali e mainstream c’è una stagnazione preoccupante. Non solo nel metal, ma anche in altri contesti che una volta erano considerati più sperimentali. L’attitudine deve esserci, esistere in un movimento musicale, ma deve fare da promotrice all’intenzione ed alla ricerca, non fine a se stessa, ma individualista e individuata in situazioni compositive nuove e poco battute. Nella più ampia accezione del termine, il metal è un genere musicale che si presta ad essere destrutturato, contaminato e imbastardito nobilmente con altri tipi di musica. La storia ce lo insegna. Solo in questi ultimi anni si sta assistendo ad un lento e noioso revival di stili già conosciuti ed ascoltati.
Esistono delle realtà (scene, etichette, musicisti, situazioni) con cui vi sentite più affini e che ritenete condividano la vostra attitudine ed il vostro approccio eretico?
In Italia come all’estero, ma soprattutto nel nostro bistrattato Paese che non offre nulla a chi fa arte di confine, ci sono situazioni, gente, musicisti che hanno un proprio messaggio da trasmettere. Gente che si fa davvero il mazzo per creare qualcosa di nuovo. Nel nostro ambito, nella scena musicale in cui esistiamo, nel corso di questi anni abbiamo incontrato moltissime persone, band, abbiamo visitato e suonato in centinaia di locali, squat, cantine ed abbiamo trovato un substrato culturale e musicale vivo, pulsante, vero, che necessiterebbe solo un po’ più di attenzione non solo da addetti ai lavori ma dal fruitore finale. Ci sentiamo legati artisticamente a moltissime band, tutte quelle di Argonauta Records per esempio. Una piccola realtà che sta crescendo, lavorando con professionalità ed umiltà e sta diventando giorno dopo giorno sempre più grande dal punto di vista qualitativo. Argonauta Records ha saputo creare un movimento di band ed artisti tutte con una certa personalità e con un comune intento artistico. In Argonauta abbiamo trovato la casa dove poter continuare a crescere. Band come Nibiru, Varego, Tovarish, Shabda, hanno la nostra stessa attitudine e lo stesso approccio. Ci sentiamo molto legati sotto tanti punti di vista.
Questo punto della situazione prelude ad una nuova svolta o piuttosto rappresenta una semplice celebrazione in attesa di gettarvi sul nuovo disco?
Questo lavoro è una celebrazione. Ma è anche un mantenerci vivi in sala prove ed in studio. È stato anche un banco di prova per testare le nostre capacità come produttori. Infatti abbiamo la grande fortuna di avere all’interno della band, oltre a un eclettico chitarrista, anche un ottimo produttore che ha uno studio proprio. Abbiamo la fortuna di essere seguiti da un fonico con le palle che ci conosce da anni e dunque, unite queste due situazioni, abbiamo provato a registrare e produrre l’ep. I risultati si possono ascoltare. Sul prossimo album quindi faremo tutto noi.
Quando vi mettete a lavorare ad una nuova uscita, preferite pianificare il tipo di percorso che seguirà il suono o piuttosto lasciate che la musica fluisca in fase di composizione? È più il lavoro di preparazione o quello di post-produzione?
Da La Dittatura Del Rumore la post –produzione ha avuto una certa importanza. Prima di questo disco era quasi tutto istinto, liberazione di emozioni che poi in studio andavamo a limare, modificare ed arrangiare. Ora la ricerca e l’evoluzione, pur essendo primarie, sono accompagnate da un giusto lavoro di pre e post produzione, che inizia già prima di entrare in studio di registrazione.
Avete già in programma le prossime scadenze, avete cominciato a lavorare a nuova musica?
Attualmente stiamo cercando di suonare il più possibile, ma stiamo anche provando cose nuove. Non abbiamo scadenze imminenti. Penso che buona parte del 2016 la dedicheremo alla scrittura del nuovo album. Vorremmo farlo uscire nel 2017.
Concludiamo con una considerazione sulla musica live in Italia oggi, quali i pregi ed i difetti di muoversi in una realtà come quella italiana nel momento in cui ci si appresta a suonare dal vivo? Quali aspetti andrebbero migliorati per poter supportare in modo ottimale le band?
Come dicevo prima, in Italia ci sono parecchie situazioni e numerose proposte che alimentano il sottobosco di un certo tipo di musica alternativa. Senza fare troppo distinzioni di generi, c’è davvero molto di cui potremmo andare fieri. Non possiamo considerarci inferiori a nessuno a livello artistico. Ci possiamo sentire inferiori a molti, facendo dei confronti con l’estero, sul come vengono proposte o meglio supportate queste situazioni. Mancano infrastrutture, locali, mancano fondi da investire sulla cultura alternativa, sull’arte, sul cinema, sulla musica. L’artista italiano fatica il doppio a raggiungere un traguardo rispetto ad un pari estero perché non ha queste cose che lo sostengono. È un “do it yourself’ anche quando non è una scelta etica, ma necessità. E quindi tutto diventa ancora più difficile. Suonare in Italia per una band che fa musica di confine e si autofinanzia in tutto, è una tragedia e un suicidio. Ma lo si continua a fare perché creare musica, suonare e comunicare emozioni sono azioni e reazioni che non hanno significato se si inizia a barattarle con denaro, business e vendite di merchandise. Ciò non toglie che la situazione sia drammatica e il cambio generazionale, che in larga parte non sta avvenendo, non aiuterà. Al momento non vediamo soluzioni che possano far cambiare questa stagnante agonia. Se non si acquisisce una nuova mentalità, le cose non potranno che peggiorare.