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INDIGO SPARKE, Echo

Indigo Sparke è una folksinger australiana, al debutto sulla lunga distanza con Echo su Sacred Bones, in uscita adesso in digitale, a maggio su supporto fisico, inclusi vari vinili in edizione limitata. Penserete subito a un altro nome d’arte eccentrico buttato lì tanto per fare presa, e invece no: Indigo deriva da “Mood Indigo”, la canzone di Duke Ellington amata dai genitori dell’artista, di professione cantante jazz e musicista, che in casa erano soliti mettere sul piatto anche 33 giri di Joni Mitchell e Neil Young. La figlia deve esserne rimasta ben presto affascinata ma, prima di iniziare a suonare attorno ai vent’anni, in tenera età si è cimentata anche nel campo della recitazione. Ecco forse da dove proviene il magnetismo perfettamente in controllo sfoderato, per esempio, nel più recente dei video, quello per “Everything Everything”.

La produzione di Echo è stata curata con la compagna Adrianne Lenker, leader dei newyorkesi Big Thief, e con Andrew Sarlo, in precedenza al lavoro con gli stessi Big Thief per i quali Sparke ha aperto molte date, attirando dunque attenzioni anche negli ambiti più indie oriented. Il disco scaturisce dall’energia incamerata nel viaggiare per l’America, spostandosi tra NYC, Minneapolis, Topanga e Taos, guidando per le superstrade e cambiando numerose stanze d’albergo, ma vale innanzitutto per la scrittura della sua titolare, affascinante nella sua essenzialità in prevalenza voce-e-chitarra, oltre che interessante dal punto di vista dei testi, basati su esperienze di vita vissuta, nell’ampio spettro che va dalla dipendenza alla guarigione. Echo richiede dedizione all’ascolto perché c’è appunto poco e niente a distrarre dall’intimismo nudo e crudo delle sue tracce. C’è però una foto di copertina che è indizio di altro: Quando componevo e registravo il disco, mi domandavo come tutto sarebbe stato nel suo insieme. Mi sentivo come se fossi di nuovo nel deserto, guardando il cielo blu della notte, interrogandomi su come si sarebbero collegate tutte le stelle. Penso che a volte siano la materia scura o lo spazio vuoto tra loro a tenere tutto assieme. Questo disco è un’ode alla morte e alla decadenza. E all’inquietudine di sentirsi appartenente a qualcosa di più grande. Adrianne e io abbiamo parlato molto del mantenere il disco disadorno e semplice, che poi è proprio come tutti siamo costantemente spogliati e umiliati dalla vita.

Dunque, non è una tipa particolarmente solare, Indigo. Né accomodante, tanto che i primi singoli estratti dall’album, la splendida “Baby” e la già citata “Everything Everything” (tutto sta morendo, tutti stanno morendo), sono posizionati in fondo alla scaletta. Prima, per arrivarci, vi imbatterete nella delicatezza di una “Colourblind” che sul finale si accende di scintillii acustici, nei giri vagamente beatlesiani di “Undone”, nel canto in linea Marissa Nadler di “Bad Dreams”, negli echi fantasmatici sulla progressione altrimenti tradizionale di “Carnival”, nel semi-spoken da riserva indiana che piacerebbe a PJ Harvey di “Dog Bark Echo”, nelle corde quasi gracchianti, imperfette e proprio per questo sempre espressive di “Wolf”. Già un piccolo cult.