Incubate Festival, il report di domenica 15 maggio
Abbiamo spiegato qui come il festival olandese sia triplicato (ha luogo tre volte all’anno). Noi siamo stati presenti alla “puntata” di maggio, ma solo di domenica: questo è il nostro racconto. Le foto sono, in ordine di scorrimento, di Jostijn Ligtvoet, Minco Den Heyer, William van der Voort (Aluk Todolo e Nate Young dei Wolf Eyes), Jan Rijk (Arpanet e Nurse With Wound).
Tilburg (Olanda).
Dopo la nottata di mazzate speedcore ed extratone a Breda, al Legion of Speedcore, cerco il primo treno per spostarmi leggermente a est, verso Tilburg, obiettivo: Incubate. La moderna cittadina olandese ospita spesso grandi eventi culturali, politici e sociali. Ci si ritrova quindi sperduti per le poche strade piene di gente e per i mercatini nei quali far scorta di 7″. Prima di iniziare la parte musicale del festival voglio esplorare le mostre annesse al festival. Il NWE vorst (dove torneremo per Arpanet) ospita una bella installazione di Ronald van der Meijs. Una scultura semitrasparente fatta di cuscini di plastica vuoti, che, accasciata al suolo, reagisce alla presenza umana. Una volta varcata la soglia della stanza scatta un meccanismo che pompa aria all’interno dei cuscini, gonfiando in modo imponente la struttura, un po’ come il comportamento di alcune piante quando percepiscono un essere umano. Al piano di sotto continua la mostra con un altro artista, questa volta dall’approccio più minimale, Martijn Hendriks. Gli ambienti appaiono più spogli, con cinque sculture semi nascoste nello spazio: tutte sembrano voler esplorare il tema dell’equilibrio e della precarietà, anche se senza il bellissimo testo affiancato la fruizione appare difficile e volatile. Gli oggetti sono costruiti in modo da non poter durare: una lastra appoggiata su bottiglie di birra, noci di cocco piene di un liquido nero in bilico su una griglia; il tutto impastato da un minimalismo sporco di recupero, tema caro all’Olanda. In ogni caso a colpire è più il testo, che ci fa riflettere sull’esistenza dell’opera d’arte nei giorni nostri rispetto alla sua riproduzione fotografica, cioè la sua rappresentazione più comune, grazie a internet. La domanda postaci quindi è: quanto è reale un’opera d’arte al giorno d’oggi se non viene fotografata e postata? O per citare il testo: “pics or it didn’t happen”.
La particolarità che rende l’Incubate un gran festival è il fatto che ti consente di avere un’idea dello spazio urbano in cui si trova: sono una decina le venue che ospitano concerti ed eventi in giro per Tilburg. C’è sempre qualcosa da vedere, ma il bello è proprio spostarsi da posto a posto e quindi avere anche l’occasione di visitare un po’ il centro. Il primo locale in cui mi reco è il Cul De Sac, un pub con un bel palco oscurato a dovere. Qui si esibiscono gli Hypochristmutreefuzz, formazione belga dedita al noise rock. Prima ancora della musica ciò che colpisce è la presenza scenica arricchita grazie a delle lampade al neon che i musicisti utilizzano per illuminare gli strumenti: queste luci si accendono e spengono a tempo e donano un’aurea misteriosa e allucinata al concerto, mi ha ricordato vagamente l’utilizzo delle lanterne in Insidious. Batteria, basso, chitarra, tastiere e voce fanno un viaggio in quei meandri scoperti dai Queens Of The Stone Age all’inizio dei 2000, l’incudine noise rock proviene da ritmi spezzati e martellanti violenze chitarristiche, che privano il retaggio QOTSA di quegli aspetti psichedelici/drogati. Non si tratta di una band rumorosa, anche se molto carica, i suoni strizzano l’occhio più ad un orientamento pop che rock, e anche i pezzi più estremi si limitano ad essere veloci e schizofrenici ma mai impegnativi. La presenza scenica è ottima, molto teatrale e ben studiata la parte luci, un bello spettacolo, piacevole, ma non so se quest’ultimo termine possa essere un complimento.
A pochi metri, allo 013, sede principale dell’Incubate, stanno iniziando gli Aluk Todolo, veri headliner di questa edizione. Anche il trio francese è ben accompagnato da una semplice ma efficace installazione luminosa. Come in ogni concerto dei francesi, infatti, una lampadina davanti alla batteria pulsa luce dialogando con l’intensità sonora prodotta, ed essendo l’unica fonte emette una sensazione di sinistra dedizione alla band, che viene appena sfiorata dai raggi. Questa luce mite sembra comunque dare una potenza inaudita che si riversa nella grinta e fierezza con le quali viene esposta la musica. Il basso dal tono talmente rotondo oscura a tratti la chitarra mentre cerca di raggiungere la violenza ritmica della batteria. Tutto è in perfetta armonia, di rock rimane poco, i vecchi Aluk Todolo dimenticati, qui si parla metal, metal nordico, mentre l’assetto solo strumentale e l’impostazione ripetitiva evocano la spirale psichedelica più oscura che si sia sentita da tempo. Un viaggio incontrollabile attraverso dimensioni buie e monumentali. I lunghissimi pezzi sono delle ciclopiche battaglie spirituali, eseguite con instancabili ritmi marziali e riff epocali. Niente soste, niente tregue, solo battaglie, e gli Aluk Todolo raggiungono la vittoria.
Subito fuori dalla sala, sempre allo 013, sta tessendo un tappeto ambient drone Kevin Verwijmeren, un eccellente ricamo post Aluk Todolo. Ascolto un po’ l’ottimo set, ma scelgo di prendermi una pausa per mangiare qualcosa, la prossima tappa sono i Wolf Eyes.
C’è aria di festa oggi a Tilburg, il tempo è stato magnanimo e i mercati hanno aiutato a riempire le strade. È ancora giorno quando i Wolf Eyes salgono sul palco, e rimarrà giorno anche alla fine. C’è stato un lieve slittamento di orariom dovuto a quanto pare a un cattivo volo per i mostri del Michigan, ma l’impeccabile organizzazione del festival fa in modo che non ci siano altre modifiche per il resto dei live. Già durante il soundcheck si preannuncia qualche problema tecnico e alcune cose non sembrano funzionare come dovrebbero. Il concerto infatti comincia con rumori non graditi alla band, e già da qui inizia la parte un po’ assurda. Da qualche anno i Wolf Eyes hanno avuto il coraggio di voltare pagina, e Mike Connelly ha lasciato spazio a James Baljo. Il loro ultimo disco, lo stupendo I Am A Problem / Mind In Pieces (uscito su Third Man, ci ritorneremo) estremizza quello stato d’animo ubriaco e stordito che Nate Young aveva già manifestato con il suo capolavoro Regression, mischiandolo, se vogliamo, agli ideali più decadenti dei Wolf Eyes di Dead Hills. Quindi il periodo Hospital / Sub Pop è da mettere da parte: niente vomito nero, niente bestie umane, niente headbanging durante i concerti. Anche il concetto di trip metal sembra superato, di metal infatti neanche l’ombra. Ora i Wolf Eyes sono stanchi, vagabondi, confusi da tutte le sostanze rumorose da loro stessi create e se questa onirica posizione di sconforto è stata espressa in modo cristallino ed esemplare su disco, dal vivo le cose sembrano andare in modo diverso. Come ho detto, la situazione burrascosa nella quale si è ritrovata la band con lo sfortunato viaggio sembra avere ripercussioni su tutto il set. I suoni non funzionano, i volumi sono bassi, loro sembrano esausti. Nate Young si dedica come sempre alla voce, accostandola all’armonica che utilizzava durante i live di Regression, spinge dell’elettronica pesante sulle casse e tesse così le pianure aride e cupe sulle quali John Olson può scagliare i suoi fulmini. Quest’ultimo rimane fedele ai fiati, i suoi flauti costruiti con tubi industriali, gli stessi che usava anni fa per il tour di Always Wrong e per il progetto con sua moglie Dead Machine, e il sax. Questi due strumenti vengono alternati e suonati contemporaneamente, ne consegue una struttura arrugginita e squallida, in vero stile Wolf Eyes. Purtroppo qui a tratti sembra che queste soluzioni di Olson facciano più presenza scenica che contenuto, addirittura a un certo punto dal microfono parte un feedback cupo e sovrastante e lui cerca di aggiustarlo, ma presto si arrende e lo stacca quando sarebbe benissimo potuto restare lì a fare il suo feedback maestoso. C’è molta, troppa attenzione per la pulizia e mi piange il cuore dire che da qui in poi sembra esserci poca sincerità nel concerto: non sembra spontaneo, né forse studiato, sembra sbagliato. Le parti di Baljo sono inesistenti, sfiora le corde della chitarra con movenze esagerate, ma non è ben chiaro cosa ne fuoriesca, mi è sembrato molto adatto alla Third Man. L’intenzione jazz oscura fallisce nell’impossibilità di coagulare l’elettronica con gli effetti che Olson aggiunge con i suoi strumenti. Nate Young non sputa più parole in faccia al pubblico ma racconta storie, e la sua presenza mette in ombra soprattutto quella di Baljo. Io spero, e credo, che la poca resa live sia più attribuibile all’incidente del viaggio che a una vera e propria perdita di colpi e influenze che la nuova etichetta cerca di dar loro. È stato anche un peccato visto che il palco dello 013 è perfetto per i nuovi suoni sviluppati da questi monoliti del noise. Li rivedremo ad Amsterdam fra poche settimane all’OCCII e da lì trarremo più risposte, anche perché spero vivamente di non doverli salutare per sempre.
I Wolf Eyes non sembrano gli unici a soffrire di problemi tecnici, anche Arpanet non sfugge alla casualità dei malfunzionamenti elettrici durante il suo set al De NWE Vorst. La spaziosa sala offre al pubblico una platea dove poter stare in piedi e una tribuna nella quale potersi accomodare. I primi pezzi del master della techno di Detroit sono impeccabili, freschissime frequenze caricano elettrostaticamente l’aria grazie alla chimica di bassi fluidi e alti acidi, spalmati su una ritmica afro techno. Gerald Donald è una spugna di stili che si spreme per farci arrivare nuove emozioni. Persino i visual, degli spezzoni di grafiche virtuali anni Novanta, riescono a sposarsi bene con le sue geometrie elettroniche e sintetiche. Ma la goduria dura poco e presto – non si capisce bene come – tutte le basi, i suoni e i video sembrano non rispondere più, si intervallano volumi inesistenti e sparatorie di urla drone, le immagini si intrecciano e si ripetono, c’è qualcosa che non va. In ogni caso ne è valsa la pena, merito della prima parte. Peccato per la durata.
Ritorno di corsa allo 013 per il gran finale, il super atteso live show targato Nurse With Wound, un nome che ha alle spalle un quantità esorbitante di materiale artistico, musicale e concettuale, un universo di immagini e suoni. Per nostra fortuna dal 2006 in poi M.S. Waldron ha registrato qualsiasi cosa sia stata prodotta dalla creatura di Steven Stapleton, quindi qualsiasi brano, prova, live, conversazione privata… questa enorme quantità di informazioni è stata poi concretizzata nel doppio album Dark Fat, presentato per la prima volta all’Incubate. Una gran parte del live ha visto resuscitare i suoni di Chance Meeting On A Dissecting Table Of A Sewing Machine And An Umbrella; i sei componenti sul palco, tra i quali è una gioia vedere anche Andrew Liles, fanno un effetto molto professionale e direi quasi museale. Stapleton al centro coordina tutti verso una libera improvvisazione elettroacustica industriale, mentre ogni strumento, tastiere, chitarre, synth (…), ricerca avidamente il proprio spazio, ma saranno la quiete e la compostezza a prevalere, infatti è palese un totale controllo di ciò che si sta attuando, il contrario di come l’album del ’79 è stato concepito. Presto infatti il cut & paste verrà sostituito da un progressivo evolversi di ogni suono, anche microscopico, che sarà esplorato all’interno del caotico assembramento orchestrale che compone il pezzo in auge. I video sono ripetitivi, vecchio materiale d’archivio assemblato a collage che però dopo poco diventa un normale sottofondo, anche perché è la tenuta del palco a stupire. Siamo vicini ai quarant’anni del progetto e questo live è più un tributo alla storia di Nurse With Wound che qualcosa di nuovo, o meglio qualcosa di nuovo creato dissezionando i cadaveri passati. Mi ha fatto un effetto simile vedere i Tangerine Dream al teatro GEOX a Padova, c’era qualcosa di stupefacente ma con una formalizzazione molto accademica, il che va bene visto che in effetti si parla di gruppi storici e che in ogni caso fanno ancora dell’ottima musica. Nurse With Wound è quindi un bel finale per curiosi ed appassionati, un live di qualità che ricorda suoni passati, pieni di polvere e sporchi di fuliggine, ma che trascinati nel nostro tempo rimangono spaventosi.