IN ZAIRE
White Sun Black Sun è un lavoro che da più parti sta riscuotendo attenzioni e critiche positive. Inoltre risponde in modo intelligente a una specifica questione tanto in auge in questo periodo: la rielaborazione di codici musicali già riconosciuti dalla storia con quelli di mondi più o meno esotici, sintomo evidente di mescolanza culturale e approccio onnivoro. Gli In Zaire sono dunque un progetto che parte da lontano e che cerca, alla sua maniera, di trovare nuove chiavi di lettura sempre affascinanti, con la consapevolezza di avere nel proprio background idee e stimoli da vendere, che mai sanno di mera riproposizione. De Zan, Rocchetti, Biondetti e Pilia fanno con noi il punto della situazione, a partire dalla nascita del gruppo, fino ad arrivare a come questo si è sviluppato nel tempo. Cercateli on stage, e intanto buona lettura.
Maurizio Inchingoli: Ho avuto la fortuna di vedervi praticamente agli esordi (o almeno cosi credevo all’epoca), un paio di anni fa al Netmage, mentre musicavate un filmato proiettato dai tipi della bolognese Home Movies (si intitolava “Paper Mache”). Ora pare di capire che non siete solo un progetto estemporaneo, ma un vero e proprio gruppo che ha deciso di crescere, no?
Alessandro De Zan (basso, voce, percussioni): Sì, l’esperienza con Home Movies al Netmage risale ormai al gennaio 2011, due anni fa, ma il progetto In Zaire era già attivo dal 2008. È stato proprio a maggio di quell’anno che abbiamo suonato per le prime volte come In Zaire, durante un tour con G.I. Joe più Claudio Rocchetti. Tra un set e l’altro facevamo una breve performance insieme molto psichedelica. Già allora il progetto ci divertiva molto e avevamo intenzione di farlo crescere, ci abbiamo sempre creduto nonostante fosse nato per caso. Abbiamo fatto qualche disco e un po’ di concerti in trio e Stefano si è unito a noi, il gruppo ne è stato chiaramente influenzato ed è cresciuto ulteriormente.
Claudio Rocchetti (elettronica, turntablism): Quella serata è stata molto particolare, dovevamo confrontarci con una parte video, un grosso palco, ed eravamo in tour da parecchi giorni in giro per l’Europa. Il tutto senza il tempo di provare seriamente la cosa, ma direi che ce la siamo cavata…
Riccardo Biondetti (batteria, elettronica): Confermo, in realtà anche al tempo di Netmage la cosa non era un progetto estemporaneo. Infatti quella data era l’ultima di un tour di due settimane che ci aveva portati in Inghilterra, Germania, Belgio e Austria. In Zaire è sì un gruppo nato come un esperimento di collaborazione tra amici musicisti, ma che da subito ha avuto intenzioni di crescita e ricerca musicale.
Stefano Pilia (chitarra): Nemmeno allora si trattava di un progetto estemporaneo, eravamo già un gruppo con almeno un paio di tour alle spalle e un one-sided in quattro. Ai tempi dello split con The Skull Defekts, invece, io non ero ancora nel gruppo ma Ale, Ricky e Claudio erano già un trio da almeno un anno o forse più.
Nicola Giunta: White Sun Black Sun è dunque il primo vostro lavoro sulla lunga distanza, dopo appunto un paio di 12” one-sided e uno split con gli svedesi The Skull Defekts. È un disco che appare più definito e “composto”, dove l’influenza della dimensione live sembra venire fuori in misura minore rispetto a prima. Ci direste un po’ come è nato, come si sono sviluppati i brani, e se ci sono aneddoti particolari?
Alessandro: È vero, White Sun Black Sun è un disco sicuramente più composto rispetto alle registrazioni dei dischi precedenti. Ci siamo chiusi per tre giorni in uno studio di registrazione sull’Appennino, vicino a Reggio Emilia, suonando e registrando per tipo sedici ore al giorno. Molti dei brani si sono sviluppati partendo dall’idea di uno di noi a turno, che è stata poi sviluppata da tutti e quattro insieme. Per fare degli esempi: “Mars” e “Jupiter” sono nate da basi elettroniche fatte da Claudio, “Sun” da un giro di chitarra di Stefano, “Moon” invece da un ritmo basso/batteria di Ricky e me. Da ogni idea, ritenuta interessante da tutti e quattro, partivamo a sviluppare e orchestrare il tutto e così si è composto il disco.
Claudio: Ti posso dire che mi ha sorpreso il lavoro in studio. Era la prima volta che ci confrontavamo insieme con una produzione vera e propria. Nonostante i pochi giorni a disposizione abbiamo mantenuto il focus sulle idee giuste e non ci siamo persi, questo è merito anche di Giovanni Frezza che ci ha tenuti al “guinzaglio” quando necessario.
Ricky: Questo disco è nato completamente in studio. Siamo arrivati con qualche idea proveniente dall’esperienza live e con alcuni suoni e da lì abbiamo iniziato a improvvisare e registrare. L’idea comune che avevamo in mente però era la forma canzone, quindi lunghezze dei brani contenute e ripetizioni. Alla fine di tre giorni intensi di registrazioni e gnocco fritto il materiale che ci siamo trovati in mano erano le canzoni del disco, su cui poi abbiamo lavorato con un po’ di editing e sovra-incisioni casalinghe.
Stefano: Suonando assieme si sono creati dei temi, delle dinamiche e dei percorsi attorno ai quali in genere improvvisiamo: alcune cose ereditate dal trio, molte altre sviluppate in quattro. Ad un certo punto abbiamo sentito la necessità di fissare queste idee su un disco. Lo scheletro delle tracce è comunque registrato live in studio, improvvisando così come facciamo dal vivo. Ci sono alcuni elementi che abbiamo deciso di registrare successivamente (tipo la voce, delle parti di elettronica, alcuni overdub di percussioni, di basso o chitarra). Abbiamo dovuto adottare alcuni accorgimenti e qualche artifizio, una sorta di strategia produttiva per poter rendere al meglio l’impatto sonico che In Zaire ha dal vivo. Non è facile registrare con accuratezza una band di quattro persone che suona e improvvisa con dinamiche e volumi così estremi. Allo stesso tempo non volevamo qualcosa di troppo clinico. Era importante rendere la ruvidezza, la spontaneità e la ruggine psichedelica del nostro suono.
Nicola: Cosa mi dite invece dei titoli (pare esserci una consequenzialità tra loro) che avete dato alle tracce? Sono in qualche modo legati al carattere dei rispettivi brani, oppure non c’è nessuna connessione particolare?
Alessandro: Questa la lascio a Stefano…
Stefano: La mappa dei pianeti e il doppio sole sono semplicemente sovrapposti alla nostra musica. Sono una maschera suggestiva. I temi cosmico/astrologico e simbolico/occulto si sposano bene con la massa sonora e psichedelica degli In Zaire.
Nicola: Una cosa che mi ha colpito in positivo di questo album è la varietà di generi che si avvicendano all’interno delle sette tracce che lo compongono: hard-kraut-rock (“Sun”, “Venus”), new/NO wave con puntate quasi punk-funk (“Moon”, “Mercury”), hard-blues lunare e psicotico (“Mars”), dub (“Jupiter”), psichedelia floydiana che finisce in un collasso space-noise (“Saturn”). Il tutto rivestito però da un alone sonoro sempre personale e riconoscibile, che in definitiva lo rende un disco assai godibile, direi pure appassionante. Cosa ne pensate?
Alesssandro: Sì, sono d’accordo, il disco è molto vario. Credo che si sia in qualche modo manifestato il nostro interesse a trecentosessanta gradi per la musica e per la moltitudine di generi e sottogeneri che ne fanno parte. “Moon” è un pezzo quasi funk, “Jupiter” è più o meno dub, “Mars” è per certi versi country… il tutto condito con psichedelia e Africa nera. Stamattina per esempio mi sono svegliato ascoltando John Fahey passando per Fela Kuti, per poi darmi un po’ di energia con gli Slayer. Sai come si dice… la musica è bella perché è varia!
Claudio: È un buon amalgama di tutto quello che ci piace e ci circonda quotidianamente. La particolarità sta nel cercare di imporre un filo comune a tutte le influenze: mi pare che ci siamo riusciti, ma questo non lo dovremmo dire noi…
Ricky: In Zaire si nutre di tanta musica e diversa, quindi il risultato rispecchia un po’ tutte queste influenze.
Stefano: Sì, direi che è un buon minestrone. Molto spicy!
Nicola: Domanda per Claudio e Stefano. Ascoltando “Jupiter” non ho potuto evitare di pensare ad un progetto che credo abbia significato parecchio per voi da un punto di vista di crescita musicale: ¾Hadbeeneliminated. Mi riferisco ad esempio ad un pezzo come “Shiftingpositiondubredux”, contenuto nel singolo del 2006 “Dimethyl Atonal Calcine”. In che modo l’esperienza dei ¾ ha influenzato questo progetto?
Claudio: Insieme a “Saturn” è uno dei pezzi più “prodotti” del disco, credo che “l’influenza ¾” si senta in questo. Anche se devo dire che per come mi immagino io gli In Zaire siamo esattamente agli antipodi rispetto a ¾Hadbeeneliminated. Se qui abbiamo l’irruenza del rock e la freschezza del funk, dall’altra parte si cercava la sperimentalità a tutti i costi, con i rischi e tutti gli annessi e connessi. Una cosa in comune potrebbe essere l’improvvisazione (anche se ovviamente le basi di partenza sono radicalmente diverse) e l’amore per la psichedelia.
Stefano: “Jupiter” è in effetti il pezzo che più si avvicina alla produzione dei 3/4, soprattutto per una serie di interventi di mix ed editing creativo che sono parte integrante della composizione del brano. Così come spesso è nella musica dei 3/4. Il fatto che poi sia un dub è più un caso. “Shiftingpositiondubredux” è l’unico pezzo dei 3/4 che ha un certo sapore dub. Direi però che In Zaire ha una sua forte identità secondo me non troppo riconducibile né ai 3/4 né ai G.I. Joe.
Maurizio: Del resto voi provenite tutti da altre band o singole situazioni. Quali sono le differenze tra le vostre cose precedenti e questa a nome In Zaire?
Alessandro: Non parlerei tanto di differenze. Nel senso che le differenze di genere tra un gruppo e l’altro e il percorso di crescita fatto nel tempo attraverso i vari progetti credo siano abbastanza evidenti. Più semplicemente, negli In Zaire, sia sul piano umano sia su quello musicale, c’è molta intesa e molto rispetto tra di noi. Siamo molto amici. Io personalmente sto molto bene e mi diverto con gli altri e a livello musicale gli stimoli non mancano mai.
Ricky: Prima di In Zaire io e Ale suonavamo nel duo G.I. Joe. Credo In Zaire sia la sua naturale evoluzione, già nell’ultimo disco, Tropico, ci eravamo avvicinati ad un approccio e a delle sonorità più simili a In Zaire. Da gruppo math-rock com’erano G.I. Joe sentivamo i limiti e la noia del suonare in quel modo. Volevamo più spontaneità e varietà, e l’approccio all’improvvisazione è venuto naturale. L’idea era quella di proporre dei live dove la musica avesse un’anima free ed una fisicità rock. In Zaire rispecchia questa intenzione.
Nicola: Rimanendo in tema di influenze: sempre più spesso ultimamente, quando si a che fare con gruppi come il vostro, vengono fuori due argomenti chiave: kraut rock e film “di genere”. Luogo comune o no? Anzi, facciamo così, ognuno di voi quattro mi nomini tre dischi e tre film senza i quali gli In Zaire non potrebbero esistere, così tiriamo un po’ le somme…
Alessandro: Dischi: Neu! – “I”, James Brown – “Reality”, Miles Davis – “On The Corner”. Film, direi tre registi più che tre film: David Lynch, Sergio Leone, Walter Hill.
Claudio: … non saprei, me ne servirebbero trenta e trenta probabilmente…
Ricky: Dischi: il primo Kraftwerk, Iron Maiden – “Live After Death”, Ray Barreto – “Acid”. Film: Pink Floyd – “Live at Pompeii”, Gualtiero Jacopetti – “Africa Addio”, John Carpenter – “1997: Fuga da New York”.
Stefano: Kraut e film di genere ? Secondo me un po’ ci azzecca. I tre più tre no, dai! È troppo difficile per me… non ci riesco.
Nicola: A proposito, il nome che avete scelto sembra avere a che fare con l’omonima canzone di Johnny Wakelin del 1976. Retromania reynoldsiana? Mal d’Africa fra l’oleandro e il baobab? Infanzie televisive interrotte?
Alessandro: Infanzie interrotte sicuramente. Comunque, è un nome fichissimo, si o no?! Più che la versione di Wakelin noi preferiamo quella di Round One degli anni Ottanta. Era un periodo in cui un po’ tutti ascoltavamo afro-beat e – dovendo scegliere un nome per il gruppo – tra le varie minchiate che sono state proposte c’era In Zaire. L’abbiamo preso da quella canzone, sì. Mi pare l’abbia fatto inizialmente Claudio.
Ricky: L’afro è una passione comune mia e di Claudio. Inoltre volevamo qualcosa che suonasse falsamente esotico e In Zaire era perfetto. La prima incarnazione del gruppo nasceva con un suono molto più tribale e percussivo, con richiami musicali all’Africa e all’Oriente. Lo Zaire, non esistendo più, rendeva l’idea del gioco che avevamo in mente.
Maurizio: Domanda provocatoria per Claudio. Vista la tua passione per il metal, quanto c’è (e se c’è) di “metallaro” negli In Zaire?
Claudio: Non credo molto, ci scherziamo sempre quando siamo in tour con questa cosa del metal. E ne ascoltiamo parecchio anche in furgone ma, al di là di questo, non credo sia un’influenza riconoscibile nel suono del gruppo.
Nicola: Un’altra domanda che magari farà storcere il naso a qualcuno. Cosa ne pensate di quella situazione che poco tempo fa venne definita dal giornalista di Blow Up Antonio Ciarletta “Italian Occult Psichedelia”? Penso a realtà come La Piramide di Sangue, Cannibal Movie, Mamuthones, Heroin In Tahiti… Esiste secondo voi qualcosa che si può definire – se non un movimento o un genere vero e proprio – una “scena”? Quali sono, se ci sono, le connessioni che legano i vari gruppi?
Alessandro: Di una scena in senso stretto credo non mi sentirei di parlare, almeno per quanto ci riguarda. Molti dei gruppi che hai nominato sono amici, ci conosciamo tutti e ci apprezziamo molto a vicenda, questo sicuramente. Credo che ci accomuni la passione per la musica, la voglia di sperimentare, e magari alcuni gusti. Comunque sia, ai posteri eccetera eccetera.
Ricky: Non parlerei di vera e propria scena ma di un insieme di musicisti collegati tra loro da rispetto reciproco e amicizia. Io personalmente porto avanti l’etichetta Sound Of Cobra, che ha licenziato i dischi di alcuni degli artisti citati. Sono molto interessato a questo suono che proviene dall’Italia, e sono felice che questa musica stia superando i confini italiani e riceva attenzione dall’estero.
Stefano: Ci piace una certa psichedelia ruvida e ci conosciamo più o meno tutti.
Nicola: Progetti futuri per gli In Zaire (live, pubblicazioni, collaborazioni…)?
Ricky: Per adesso ci stiamo organizzando per suonare dal vivo in Europa il più possibile, nonostante la fitta agenda di tutti.
Cladio: Suonare il più possibile ed esplorare nuove soluzioni.
Stefano: Il tour, appena riusciamo ad essere liberi.