In ascolto: intervista a Matteo Gabutti di 4’33”
4’33’’ è un’associazione culturale che organizza concerti a Mantova. Matteo Gabutti ne è l’anima. Lo conosco da una vita e abbiamo riportato a galla memorie di tanto, tanto tempo fa. Ma il motivo dell’intervista, oltre che quello di dare voce a chi con caparbietà e merito si industria per dare spazio alla musica creativa (primi in Italia a portare Irreversible Entanglements, tanto per dirne una) è di stringente attualità: il 16 novembre, al Teatro Verdi, nella città di Virgilio tornerà Mary Halvorson con il suo progetto Code Girl.
Il primo ricordo che ho di un concerto organizzato da te risale a venti e più anni fa: Anatrofobia all’Arci Casbah di Pegognaga, un posto magnifico e assurdo, nel suo essere un’utopia nella nebbia. Ma erano altri tempi. Mi raccontati come hai iniziato ad occuparti di musica e qual è stato il percorso che ti ha portato ad oggi?
Matteo Gabutti: Non dimenticare i Caboto… (la band dove suonava il vostro cronista, ndr). L’area geografica che va dall’Appennino al Po è da sempre una terra di fermenti culturali, di aggregazione sociale e di sperimentazioni. L’idea di un benessere diffuso che metta al centro la cultura e nel caso specifico la musica come elemento fondamentale di questo benessere è sempre stato uno degli elementi portanti delle politiche di questo pezzo di pianura.
Avere un luogo dove poter sperimentare, far confluire musicisti diversi e idee è indispensabile per far crescere la consapevolezza che il mondo che ci circonda è fatto di suoni che dobbiamo imparare a riconoscere.
Negli anni di cui parli questa straordinaria alchimia si è realizzata in un luogo particolare e in un momento altrettanto particolare, ma non era l’unico.
Come avrai capito, la musica, i suoni, la loro natura e la loro vibrazione hanno sempre fatto parte della mia vita, e organizzare concerti, mettere in relazione musicisti è sempre stato il motore della mia attività. I mezzi allora erano diversi, ma la circolazione delle idee era la stessa di adesso. All’epoca ricevevo per posta ogni tipo di materiale, dai cd a precarie registrazioni su musicassette, come oggi ero sempre in ascolto.
In quel periodo nacque un’orchestra di improvvisatori, diversi gruppi che facevano musica improvvisata, laboratori e fiumi di rock’n’roll che si mescolava a questa idea di musica totale.
A Mantova mi è capitato di vedere (vado a memoria, sicuramente mi scordo qualcosa) Larry Ochs, European Galactic Orchestra, Rob Mazurek, Roberto Bellatalla, Vocione. Ci parli dell’associazione 4’33” e di come funziona il proporre musica creativa in Italia e nello specifico a Mantova in questi tempi complicati?
L’idea di 4’33” è quella di portare alla luce quanto è sommerso, cercare di anticipare i tempi o quanto meno provare a raccontare il contemporaneo, l’istantaneo, come istantanea è la fruizione della musica e istantanea è la composizione che esce dall’improvvisazione.
In una città come Mantova non è un’operazione facile: anzitutto si avverte la mancanza di un luogo stabile dove poter operare e programmare, ci sono sì diversi luoghi, ma, nonostante i buoni rapporti con le associazioni che li gestiscono, si è sempre degli ospiti e questo va a scapito della continuità.
La continuità è il secondo elemento utile per creare un pubblico piccolo o grande che sia, un pubblico che ha il diritto di poter conoscere aspetti della musica creativa che altrimenti non potrebbe ascoltare.
Veniamo al prossimo concerto in cartellone: torna Mary Halvorson, col progetto Code Girl. Cosa ti aspetti? E quali concerti avete in serbo per il prossimo futuro?
Il progetto Code Girl di Mary Halvorson segue un percorso di evoluzione nella musica creativa, persegue l’obiettivo di mescolare i generi, le voci, getta un ponte tra gli Stati Uniti e l’Europa, raccoglie quanto di più significativo è stato detto nell’ambito della musica inglese, l’esplicito riferimento a Wyatt e alla sua musica non sono un caso, e le istanze del jazz d’oltre oceano. La straordinaria capacità di assorbire le culture provenienti da tutto il mondo che possiede una città come New York sta restituendo una musica che finalmente si è fatta colonizzare e non è più colonizzatrice e dove il linguaggio Africano Americano del jazz fa da straordinario collante. Code Girl racchiude in sé molte di queste urgenze, non ultima quella poetica dei testi di Mary Halvorson.
La tua opinione (sincera!) sullo stato dell’arte della scena in Italia: musicisti, venue, pubblico, critica, risorse.
La prima cosa che mi viene da dire è che servirebbe una maggiore commistione tra musicisti che provengono dall’estero e musicisti italiani, le cose che a mio avviso funzionano di più e sono più interessanti sono appunto quelle di musicisti che si sono trasferiti all’estero o che includono nei propri progetti musicisti stranieri. L’esperienza dell’European Galactic Orchestra è un buon esempio di quello che intendo, e fortunatamente non è l’unico. Riguardo ai luoghi, pubblico e critica direi che sono elementi inscindibili, il luogo forma il pubblico, la critica dovrebbe avere un po’ più di coraggio e uscire da certe gabbie entro le quali si incasellano i generi, tornare a essere pubblico, mettersi in ascolto e raccontare quello che resta inespresso in chi partecipa ai concerti. Le risorse sono poche, soprattutto per i progetti riguardanti la musica creativa, direi che è arrivato il momento di dichiarare definitivamente morto il mito dell’auto-sostenibilità della cultura. Come in ogni ambito di ricerca anche la musica ha bisogno di risorse pubbliche per potersi sostenere e progredire.
Cinque dischi della vita?
Citarti cinque dischi non è facile, rischierei di offendere gli altri membri della mia discoteca.
Il primo disco acquistato da essere senziente più o meno a quattordici anni fu “La Sagra Della Primavera” diretto da Boulez. Un altro disco che ho amato e amo tutt’ora è Closeness di Charlie Haden. Remain In Light dei Talking Heads è il sunto della mia giovinezza, mentre A Love Supreme di John Coltrane e Kind Of Blue di Miles Davis rappresentano due dischi perfetti, senza tempo.
Come ti tieni aggiornato? Sei un compratore seriale da mercatino, un adepto della musica liquida, cosa leggi, cosa ascolti, chi segui?
La rete offre la possibilità di ascoltare e seguire molti musicisti e molte musiche, dai social raccolgo i suggerimenti di ascolto che arrivano da amici che hanno più esperienza, seguo percorsi che mi portano da un musicista all’altro. Ai mercatini acquisto quei dischi che per ragioni economiche non mi sono potuto permettere in gioventù, mentre in rete acquisto le ultime uscite dei progetti che sto seguendo.
Leggo riviste, soprattutto le interviste, ma in genere trovo che nei romanzi, anche se la musica ha poco a che fare, si dipinga tutto quanto sta intorno alla musica, la vita, le emozioni, i personaggi.
Per natura sono portato ad ascoltare di tutto, poi faccio dei collegamenti tra generi, musicisti band e intreccio ipotetici percorsi di rassegne.
Cosa stai ascoltando in questi giorni?
In questo periodo sono concentrato sull’ascolto della scena musicale svedese, in particolare tre progetti che fanno capo a giovani musiciste come Karin Johanson/Lisen Rylander Love duo, Elin Forkelid Band, Anna Hogberg – Attack.
Chi ascolta jazz?
Un po’ tutti, forse più involontariamente che volontariamente, se però intendi il pubblico, direi che il jazz potenzialmente potrebbe avere una platea sterminata di ascoltatori se solo sapessero che esiste, ma lo ascoltano sempre meno persone, o meglio, gli ascoltatori sono sempre meno curiosi.
Un concerto che per cause di forza maggiore non potrai mai organizzare ed invece uno che è a portata?
Difficile da organizzare soprattutto per i costi è il concerto una big band tipo quella del Lincoln Center, solo i grossi festival se lo potrebbero permettere, in realtà quello che volevo realizzare sono riuscito a realizzarlo, e la prossima stagione abbiamo diverse cose in programma, e siamo felici di poter portare a Mantova il progetto di Myra Melford “For Love of Fire and Water”, un omaggio al pittore Cy Twombly al quale abbiamo lavorato con Myra fin dallo scorso anno. Del progetto fanno parte – oltre a Myra Melford – Ingrid Laubrock, Mary Halvorson, Tomeka Reid e Susie Ibarra, il disco dovrebbe uscire anch’esso il prossimo anno.
Festival: li frequenti? Quali sono i tuoi punti di riferimento?
Per quanto possibile cerco di seguire i festival, per lo meno quelli che posso raggiungere, in realtà la pandemia mi ha permesso attraverso la rete di seguire diversi festival e rassegne anche contemporaneamente, direi che uno degli eventi che trovo molto stimolante è il Jazzfest di Berlino, sì, posso dire che è un buon punto di riferimento. Poi ogni festival ha qualcosa di interessante e qualcosa meno, si impara comunque da tutte le esperienze.
Hai un budget corposo a disposizione e tre giorni di rassegna. La line-up?
Onestamente ho una lista di musicisti che se la volessi rispettare non basterebbero nemmeno tre mesi di festival.
Credo che se potessi avere un budget illimitato cercherei di combinare progetti originali pensati per il festival, registrerei tutto e produrrei una collana di dischi.
Vorrei avere Camille Thurman, James Frances, Greg Ward, Sasha Berliner, Yazz Ahmed, Steph Richards, Jason Moran, Kris Davis e un sacco di altri.