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IKUE MORI, SATOKO FUJII + NATSUKI TAMURA

Pubblicato in Giappone da Libra Records (etichetta fondata nel 1997 da Satoko Fujii e da Natsuki Tamura, con all’attivo ad oggi 27 pubblicazioni che coinvolgono in vari assetti uno o entrambi i musicisti) e in Europa dalla polacca Not Two (che negli anni ci ha deliziato con box come Diversity di Zlatko Kaučič oppure Odes And Meditations For Cecil Taylor di Barry Guy, questo disco in trio (Fujii al piano, Tamura alla tromba, Mori all’elettronica) è un figlio luminoso (si fa per dire) di questi tempi oscuri, realizzato interamente a distanza, tra New York, dove risiede Ikue Mori, e Kobe, casa dei due partner in crime.

La pianista, due anni fa, in occasione dei suoi sessant’anni, ha messo mano a ben dodici dischi, a conferma di una vitalità inesausta, tra progetto in solo, in duo, in orchestra: il Duke Ellington del free-jazz, come qualcuno ha scritto! Il motore in questo caso si accende quando durante un meeting Zoom lei racconta all’ex batterista dei DNA che sta registrando delle sessioni in solo a casa; da lì nasce la scintilla per il dialogo a distanza, con l’invio di file da una parte all’altra del mondo. Il risultato sono dieci tracce gravide di piogge acide e mistero, come un cielo invernale dell’Antropocene in una metropoli futuribile.

L’elettronica di Mori come di consueto è sottile e fragorosa al tempo stesso, devasta e carezza, la conversazione con il pianoforte, tempestoso e corrusco come si conviene, non patisce la modalità in differita. Tamura aggiunge soffi e rimbrotti, dando un apporto invero marginale: questo è quanto accade nella title-track, che apre il lavoro, ed il medesimo programma, con le variazioni del caso, si ripete anche dopo, tra allucinazioni a bassa voce (“Sweet Fish”, come un Debussy teletrasporato nel tempo e nello spazio), nevrosi nitidissime del pianista affogato in un oceano di silicio (“Guerilla Rain”) e visioni di più ampio respiro (i dieci minuti di “Overnight Mushroom”, un Feldman post-Fukushima che verso il finale assume altre sembianze). I tre musicisti, giusto prima dello scoppio della pandemia mondiale, oramai quasi un anno fa, avevano un tour europeo con KAZE (con i francesi Christian Pruvost alla tromba e Peter Orins alla batteria) ed una sessione di registrazione a New York; il disco nasce proprio per colmare il vuoto causato dal blocco di ogni attività e in qualche modo un senso di minaccia, di attesa, di rituale pagano rivolto alle muse indicibili della Musica aleggia su tutti i pezzi, capaci di spaziare dalla quiete (“In The Water”, un carillon rotto in un giardino zen) alla baraonda (“Muddy Stream”).

Il lirismo austero e mai retorico della pianista a volte trova un varco di luce nel buio digitale orchestrato dalla maga del laptop, in altri momenti raggiunge nuove vette ed altri abissi proprio grazie agli squarci aperti dalle mutazioni di Mori (la ricordiamo sul palco di un anfiteatro romano in Francia un paio di anni fa, durante la maratona Zorn per le bagatelle: punì e benedisse il folto pubblico con quindici minuti di solo laptop spacca cervello, nella miglior accezione possibile e seguendo la miglior tradizione giapponese): la chiusura di “Sign” è ulteriore esempio di questo incontro al vertice, sigillo di un disco bello e (im)possibile.