IGORRR, Savage Sinusoid
Senza troppi giri di parole, ritengo che Igorrr sia uno dei progetti musicali più interessanti degli ultimi anni.
Gautier Serre, la mente di Igorrr, è riuscito album dopo album a far propri i cliché della musica estrema, ibridando elementi progressivi con sonorità elettroniche e partiture barocche. Letto così, uno si aspetterebbe un’accozzaglia di suoni senza senso o, nella migliore delle ipotesi, un Frankenstein che porta poco o niente sul tavolo della comunicazione. Invece, complici un sano eclettismo e la collaborazione di musicisti duttili, Serre è riuscito a costruire un’identità invidiabilmente unica e funzionante.
Savage Sinusoid è il quarto capitolo dell’avventura di Igorrr, che – complice un tour mondiale in concomitanza dell’uscita – sta regalando alla band un po’ di meritata visibilità. L’ascolto, rispetto ai precedenti album, risulta più concreto e spostato verso il lato estremo della sua poetica, senza mai per questo sacrificare il gusto per il contrappunto complesso e tenendo sempre alta l’asticella della pignoleria e della qualità degli arrangiamenti.
Ci sono brani mostruosamente frontali – come le fulminee “Viande”, “Apopathodiaphulatophobie” e “Va Te Foutre” – che esaltano le doti eccelse del batterista Sylvain Bouvier e ribadiscono come Igorrr si muova su di un territorio d’origine brullo e schiettamente vicino al metal, mentre in canzoni come “Problème D’Émotion”, “ieuD” e “Au Revoir” si lascia che siano le voci di Laurent Lunoir e Laure Le Prunenec a dominare la scena, intessendo scenari ora eterei, ora istrionici.
Presi tra questi due fuochi, abbiamo dei picchi felicissimi con la già gitata “ieuD”, “Opus Brain”, “Spaghetti Forever” e “Cheval”, che rappresentano lo stato dell’arte della visionarietà di Serre. Ognuna di esse fa convivere – con una sua peculiare declinazione dello spirito del progetto – le diverse vocazioni di Igorrr, senza mai risultare goffa, senza mai scadere nel pacchiano: ciò che in effetti rende unica la proposta dei francesi è la loro straordinaria capacità di trovare l’equilibrio in un crogiolo di stili e linguaggi che, a un primo sguardo, sembrerebbero lontanissimi tra di loro, se non addirittura inconciliabili. Il risultato è un disco assolutamente coeso, solido, che si avvale di una produzione impeccabile, curata nel minimo dettaglio; la continuità coi precedenti capitoli c’è, anche se pare ormai avvenuta la maturazione dello sperimentalismo estremo dei primi passi (Moisissure e Nostril) e risolta la pur magnifica dicotomia tra musica barocca ed elettronica di Hallelujah. Questo lavoro di affinamento e crescita va in favore di un’ulteriore personalizzazione del sound e della fissazione dei componimenti in una forma più concisa, senza sacrificare neppure un briciolo di identità.
Un’opera di razionalizzazione là dove la ragione non pareva proprio avesse potuto aver alcuna influenza.