If Nancy Doesn’t Wake Up Screaming, She Won’t Wake Up At All: Roots In Heaven, Jarl, Menche
Da musicisti, scenari, etichetta e luoghi diversi (con pubblici difficilmente sovrapponibili) arrivano qui nel giro di poche settimane tre album che sembrano quasi separati alla nascita, segno della persistenza, in questi ultimi anni, dell’interesse per il lavoro riduzionista di La Monte Young, Terry Riley, Steve Reich, Eliane Radigue e altri simili… Si potrebbe parlare di persone ormai navigate che in modo più o meno conscio tornano alla purezza delle origini dei generi che abitualmente suonano, dando alle stampe lavori forse velati da una maggiore oscurità rispetto ai “prototipi”. Rassegna dedicata ai patiti del genere e non a chi non può prescindere dall’originalità.
ROOTS IN HEAVEN, Petites Madeleines (Zehnin, 2017)
Abbiamo già parlato di Roots In Heaven: base a Berlino, identità segreta, attivo su un’etichetta della K7! family (la Zehnin) che chiede ai suoi artisti di uscire dalla loro comfort zone, suono vicino al drone e in generale influenzato dal minimalismo, con le inevitabili sfumature orientaleggianti. Nulla di nuovo, come già precisato, ma forse “sfidante” per il titolare del progetto, che – mi par di capire – nella vita di mestiere faccia cose molto più upbeat. Petites Madeleines è composto da una sola traccia di quasi un’ora, piuttosto grigia (chi proviene da un background industrial potrebbe sentirsi a casa), costruita con un drone, un loop e una percussione solenne e rada. Poco altro si aggiunge a questo, evidentemente la filosofia di Roots In Heaven, per le sue due prime uscite, è “less is more”. Molti parlerebbero di esercizio di stile, ma è riuscito bene. Da ora in poi però è lecito aspettarsi di più.
JARL, Hypnosis Colour (Reverse Alignment, 2017)
Prosegue l’incredibile percorso solista di Erik Jarl (ex IRM ed ex Skin Area), che con quasi niente sconforta come pochi. Artwork ben fatto, mastering dell’istituzione Peter Andersson, pochi fronzoli e si parte per un viaggio nello spazio interiore, alla ricerca degli angoli più bui dell’inconscio, di ricordi inaccettabili e traumi schiacciati in fondo, a forza, nella speranza che non tornino mai più in superficie ad azzopparci l’esistenza. Per tre quarti d’ora Hypnosis Colour (anche in questo caso una sola traccia costituisce l’intero album) avanza a ondate: a un drone si sovrappongono, cambiando nel tempo, una serie di loop disturbanti, che ciclicamente si accumulano (anche se non sono mai più di tre o quattro per volta), finché non divengono insostenibili. Jarl sa come insinuarsi nel cervello, disabilitarne alcune funzioni e lasciare le persone tipo zombie davanti allo stereo, con la bavetta che scende dal lato della bocca. Qui non c’è niente di così diverso dai suoi dischi precedenti (o quasi), ma questo è il suo mestiere e gli riesce indubbiamente bene (Roots In Heaven dovrebbe rubargli qualche idea).
DANIEL MENCHE, Sleeper (Sige, 2017)
Triplo album per Daniel Menche, sulla cui bravura non esistono dubbi, dato che non è da tutti poter realizzare un album a quattro mani con Zbigniew Karkowski. Anche in questo caso le tracce hanno durata considerevole (un elemento necessario da un punto di vista estetico) e fa sorridere notare come – forse perché Sleeper occupa tre ore – Menche finisca per incorporare le suggestioni di Jarl e Roots In Heaven: di nuovo dunque drone, riferimenti al minimalismo storico, paesaggi sonori solo in apparenza tranquillizzanti. L’etichetta, Sige, dipinge Daniel come “noise”, così da poter sottolineare poi quanto qui lui stavolta si sia rimesso in gioco: la definizione “noise” non è sbagliata (qui basta sentire l’ottavo o il nono episodio), ma in realtà stiamo ascoltando qualcuno che da sempre ha la capacità di tessere atmosfere e lavorare su stati d’animo differenti, senza mai limitarsi solo ad “assaltare”. Per questo non mi sorprende che abbia deciso di sviluppare un discorso ambient con Sleeper, così come non mi spiazza la validità del materiale proposto.