IDLES, TANGK
I più ribelli o i più furbi, gli IDLES? Non che una cosa debba escludere per forza l’altra, poiché il manicheismo non è la soluzione. Insofferente alle limitanti costrizioni di genere, inserita nella rinascita post-punk inglese, anzi tra i suoi trainatori, la formazione di Bristol ha ampliato il raggio di azione, chiamando a dare man forte al chitarrista Mark Bowen in fase di produzione del quinto album, su Partisan Records, Kenny Beats (già al lavoro con nomi di area hip hop come Vince Staples e Denzel Curry) e nientemeno che Nigel Godrich (in pausa dai giri radioheadiani dei The Smile, d’altronde).
Per ambizione o sacrosanta necessità di cambiamento, Joe Talbot e soci sfuggono così alle sorti dei vari Fontaines DC e The Murder Capital, tanto efficaci quanto prevedibili, e al contempo si allontanano in generale da quel rock dato sovente per spacciato, bollato come revivalistico o peggio ancora anacronistico, sebbene il titolo TANGK si rifaccia per ironia della sorte al suono onomatopeico delle chitarre. Fatto sta che, di contaminazione in contaminazione, si avvicinano per paradosso a ciò che oggi potrebbe funzionare meglio.
Alla larga da governi, monarchie e religioni, Talbot si cimenta per la prima volta con varietà espressiva al canto, cercando in parallelo di convincerci che l’amore possa trionfare sul nichilismo e che la vita sia addirittura bella. La morbida apertura a fuoco lento di “IDEA 01” spiazza subito ed è per quello che forse arriva immediatamente dopo “Gift Horse”, a ribadire la ben nota abrasività incendiaria con passo però vagamente urban, mentre il messaggio, come si diceva, è chiaro: All is love and love is all. Talbot sbraita qualche fuck the king, invitando gli ascoltatori a cavalcare gli IDLES come fossero asini da discoteca.
“POP POP POP”, a dispetto delle apparenze, sperimenta con i beat. Il resto della scaletta mette in mostra un songwriting quasi sempre robusto, per una band altrettanto robusta in un ormai più aperto, rifinito ed eclettico campo da gioco alt-rock. Il pezzo – programmatico – realizzato assieme a LCD Soundsystem ai cori, cioè il liberatorio inno pro-danze “Dancer”, è uno dei più riusciti, con la violenza a flirtare con il groove da pista, anche se l’idea pur con ogni distinguo l’avevano già avuta in fondo gli Arcade Fire di Reflektor. “Grace”, ballad espressamente consacrata alla melodia eccezion fatta per la sua coda electro-noisey, stempera la svolta stilistica con un video geniale-paraculo, riproposizione semplicemente spassosa del celebre clip di “Yellow” dei Coldplay, realizzato con l’ausilio di una AI deepfake e la collaborazione di Chris Martin in persona. Anche qui: No god, no king, I said love is the thing. Chissà se, a proposito di mutazioni, intendendo “La Cosa” di Carpenter. Ce lo auguriamo.