ICEAGE, Seek Shelter
Reduci da un gran bell’album, Beyondless del 2018, gli Iceage arrivano alla quinta tappa in studio. Partiti un decennio fa con l’oscuro hardcore punk di New Brigade e You’re Nothing, virati al cantautorato post-punk con Plowing Into The Field Of Love, poi appunto apertisi a una visione più complessa e minacciosamente appagante con il precedente lavoro, arricchito persino da fiati post-Stooges, i danesi sono sempre stati degli “irregolari”, con il perenne obbligo quindi di confermarsi ad alti livelli. Seek Shelter, invece, scombussola parecchie carte in tavola: c’è un cambio di etichetta, da Matador a Mexican Summer, e c’è per la prima volta il coinvolgimento di un produttore esterno, per di più ingombrante, ovverosia Sonic Boom, ovvero Peter Kember degli Spacemen 3 (aggiungiamo che il mix è stato curato da Shawn Everett, già all’opera tra gli altri con Grizzly Bear e The War On Drugs). Non è finita, perché la band, formata dal cantante e paroliere Elias Bender Rønnenfelt, dal chitarrista Johan Surrballe Wieth, dal bassista Jakob Tvilling Pless e dal batterista Dan Kjær Nielsen, ha accolto un secondo chitarrista tra le sue fila, Casper Morilla Fernandez. Ciliegina sulla torta, il coinvolgimento del Lisboa Gospel Collective, che va in fondo a rimarcare una linea di continuità attitudinale con Nick Cave e i Bad Seeds, quelli di Abbatoir Blues/The Lyre Of Orpheus e non solo.
Come si sarà intuito, Seek Shelter punta a obiettivi importanti, a una maggior strutturazione e di pari passo a una maggior accessibilità, a una sorta di calore sonoro che trasmetta speranza in luogo del senso di apocalisse a cui ci eravamo ormai abituati. La scaletta, articolata in nove tracce, è in effetti un rifugio di apprezzabile gusto, dove tutto è portato a compimento in maniera impeccabile, dalla ballad di apertura “Shelter Song”, manco a farlo apposta terribilmente caveiana ma persino brit-oriented, al r’n’r tutto sommato classico di “High & Hurt”, dal romanticismo maledetto di “Love Kills Slowly” all’emblematica cavalcata di groove ed elettricità intitolata “Vendetta”, quasi un punto di incontro tra Primal Scream e The Veils. Si prosegue con numeri dal mood inquieto eppure tradizionali come “Drink Rain” o una “Gold City” che va da Springsteen a Ryan Adams e via elencando, sino all’intrigante chiusura blues di “The Holding Hand”. Non che le cose siano accomodanti o preparate a tavolino, visto che il materiale è stato scritto di getto e registrato in una fatiscente sala radiofonica di Lisbona con vecchi pannelli in legno e pioggia gocciolante a orci dal soffitto. La formazione di Copenhagen si è ritrovata a essere uno dei cavalli su cui puntare per le buone sorti del rock contemporaneo, affidabile e perciò anche un po’ addomesticata rispetto ai colpi di testa degli albori o alla spinta arty dell’altro ieri. A seconda di quel che cercate, la qualità comunque c’è.