I miei Unsane
Back in the Nineties…
Della mia passione per gli Unsane e dei molti ricordi che mi legano a loro avevo già parlato altrove, nello specifico in sede di intervista con Chris Spencer: una chiacchierata nel backstage del Mamamia, in completa solitudine e rilassatezza, senza promoter, colleghi o distrazioni varie. Del resto, era da molto che le nostre strade si incrociavano, di preciso dai primissimi anni Novanta, quando, in visita a un negozio di dischi a New York, mi fu caldeggiato il debutto omonimo della band come una delle cose più interessanti, nuove e rappresentative della metropoli in quel preciso momento. Quell’album mi colpì allo stomaco per la forza iconoclasta della musica e per la copertina splatter, la foto cruda di un corpo steso sui binari della metro con la testa mozzata. Erano segni evidenti che un amante dell’estremismo sonoro (con Carcass, Helmet, Painkiller, Surgery, Fugazi, Therapy? e Rollins nel walkman) non poteva assolutamente ignorare.
In realtà, poi, fra problemi personali e traversie assortite, la frequentazione si affievolì, almeno finché gli Unsane non tornarono a esibirsi in Italia a metà di quello stesso decennio, prima a Rimini e poi per ben due volte nella mia città, Ancona, di certo non prodiga di eventi musicali di tal livello, soprattutto al tempo. Un ulteriore break e quasi dieci anni dopo è la volta di Senigallia e dell’intervista di cui si diceva prima. In mezzo c’è stata la raccolta Lambhouse, che mi ha permesso di riscoprire anche quello che mi ero perso (con tanto di video dei miei brani preferiti), poi la copia del vinile Occupational Hazard, regalatami da un amico e autografata da due terzi del gruppo, infine Visqueen, uno dei miei album preferiti, tuttora ospite frequente del mio stereo. Inutile precisare come l’attesa per il nuovo Wreck fosse altissima, ma di questo si discuterà in sede apposita, così come spero di poter scrivere il report per la loro data del 29 giugno a Bologna, la mia quinta volta con gli Unsane sul palco.
Still ahead of the pack
Difficile capire il perché di un amore mai davvero sopito, in grado di riaccendersi ogni lustro o poco più e ogni volta più forte e sincero. Sarà perché gli Unsane si impongono come punto saldo nell’ottovolante delle cotte/delusioni musicali oppure perché sono riusciti a rimanere in giro così a lungo senza snaturare mai la loro immagine o sfinire il mercato con uscite inutili, in ogni caso rappresentano ormai una sorta di faro abbarbicato su un groviglio di cemento e lamiere contorte, per di più circondato da un mare rosso sangue. Ciò che, in realtà, più stupisce è il fatto che i newyorkesi siano ancora saldamente al comando di un suono che, seppure esploso e radicato negli anni Novanta, si ritrova sempre più presente (anche come retrogusto) in uscite dell’ultima ora e stia infiltrandosi anche in altri lidi, in particolare il post-core o post-metal che dir si voglia.
Insomma, una formazione descritta come la “cosa nuova” vent’anni fa, oggi vive una seconda giovinezza e continua a intimorire concorrenti più o meno diretti, tornando oltretutto a imporsi come influenza di molte band. Una spiegazione potrebbe essere la necessità di un ritorno a musica istintiva e di pancia, lontana da laccature o imbellettamenti di sorta, cruda nel suo mostrare una cattiveria reale e non dopata, veicolo di un disagio urbano sempre più diffuso e asfissiante. Più di tutto conta, probabilmente, la mancanza di un effetto nostalgia, visto che a parte una breve pausa per motivi personali (quando a inizio Duemila Spencer si trasferì in California) non si è verificato mai un vero e proprio addio alle scene e gli album hanno continuato un lento ma inesorabile percorso di crescita, che non sembra ancora intenzionato a concludersi. Così, a distanza di cinque anni dall’incredibile Visqueen, gli Unsane tornano sulla breccia con una nuova dimostrazione di forza e stile, lontani dall’urgenza delle prime uscite ma non certo ammorbiditi. Lunga vita a loro.