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HORSE LORDS, Comradely Objects

Difficile essersi persi l’exploit che gli Horse Lords hanno compiuto negli ultimi dodici anni, salutati dalla critica musicale come una delle novità più interessanti nell’ambito underground statunitense. E a ragione: aria assorta, camicie belle precise e occhialini, i quattro di Baltimora rappresentano l’ultima incarnazione del rock “colto” americano, che trova padrini nel minimalismo di Steve Reich e Terry Riley, nel post-rock 90’s di Tortoise e Trans AM e in un’infinità di altre influenze “giuste”: blues del Mali, poliritmie, Talking Heads, Don Van Vliet, la musica micro-tonale, roba teutonica tra Klaus Dinger, Jaki Liebezeit e Holger Czukay. La stratificazione sonora degli Horse Lords era già riuscita a far breccia nel panorama internazionale con l’insuperato Interventions del 2016, ma nel 2020 la band si era confermata con The Common Task e ora a novembre se ne esce con il nuovo Comradley Objects, disco ispirato a principi di collettivismo e abbandono dell’individualità. Teorizzazioni politiche a parte, gli Horse Lords dimostrano di saperne eccome, di musica, montando e smontando gli incastri di riff e poliritmie nell’iniziale “Zero Degree Machine”, punto di partenza per una macchina che non ammette fermate verso territori afro-kraut, post-math, free o qualsiasi altra etichetta vogliate inventarvi per descrivere la musica degli Horse Lords: la perizia tecnica ha un che di maniacale e l’effetto psichedelico è inevitabile. Arrivati al quarto disco, l’iterazione totalizzante risulta un po’ noiosa: il deragliamento di “May Brigade” fa uscire il quartetto dal rettilineo kraut in un free-rock ribollente e indica la possibile direzione su cui scommettere. In ogni caso, per quanto quell’aria computa stia un po’ sulle palle, tocca ammettere che anche per questa volta gli Horse Lords segnano uno dei dischi dell’anno.