Homekilling is taping music #6
MURMUR MORI, Murmur Mori (Stramonium, 2014)
Murmur Mori è uno dei progetti musicali usciti dal collettivo artistico Stramonium. Questa volta Mirko Void (già incontrato con Kreativ In Den Boden) è accompagnato da Kuro Silvia e dalla sua voce sensuale e sofferta. Pronti, via: campane tibetane e rumori floreali di sonagli aprono la strada a un affascinante mantra buddista. Un percorso meditativo, atmosferico e iniziatico, lungo il quale la malinconia dei Dead Can Dance e le sonorità eteree alla Cocteau Twins s’intrecciano con un evocativo folk dalle sfumature tribali, che ricorda i migliori Unto Ashes (Ascent). Pentacoli, rimandi ad Aleister Crowley, esoterismo Coil e onde del mare che mestamente si adagiano e muoiono su spiagge sabbiose come fossero rigoli di lacrime che espellono scorie interiori, rendono il tutto ancor più fascinoso. L’album cattura l’anima anche perché impreziosito dal battito di strumentazione non usuale (bonghi, tamburelli e djembe), da effetti dettagliati (delay, phaser e via discorrendo), fino a giungere al fruscio emesso da un sintetizzatore (“Offering Chant”), una serie di elementi che amplificano anche un certo piglio esotico. Una cassettina da utilizzare quando ci si trova in quelle condizioni di semi-incoscienza, un dolce viatico per sogno e veglia ricolmo di soffici melodie, spugnose e vellutate. Fonti oscure dicono che stanno lavorando ad un nuovo ep e a un dvd che conterrà alcuni lavori audiovisivi legati a quest’ottimo (quasi) debutto. Murmur Mori è accompagnato da un delizioso artwork comprensivo di testi e spillette, non a caso è già esaurito (ma è in free download). Per la somiglianza e per certe tematiche mistico/chiromantiche vi dico solo che la mia copia è stata posizionata tra A Symphony For Shiva di Jarboe e una delle poche produzioni della defunta Tapemancy. Che dite: ho fatto bene? (Massimiliano Mercurio)
VIPCANCRO & SIMON BALESTRAZZI, Untitled (Lonktarr, 2015)
Intersezione particolarmente stuzzicante, quella tra VipCancro e Simon Balestrazzi, due nomi che abbiamo trattato con frequenza. La tape si apre con delle inquietanti espansioni in movimento, tra clangori e oscillazioni accumulate, mentre il resto scorre in un flusso di rumori grigi che rimangono addosso per tutto l’ascolto. Attraverso input analogici sentiamo poi la comparsa di drone, effetti granulari e voci latenti che hanno modo di contribuire alla formazione di un’atmosfera sottile, giocata sull’evocazione di ambienti sfuggevoli nella loro natura astratta. La traccia conclusiva alza ulteriormente il livello ricorrendo anche a qualcosa di più concreto, scandito in maniera irregolare da colpi metallici e distorsioni schizzate, capaci di aggiungere altra profondità ad un lavoro già molto convincente. Il blend tra queste due entità musicali risulta quindi subito spontaneo e ispirato, si tratta di una proposta dove tutto cade nel punto giusto con tocco esperto. Meglio un ascolto ripetuto per poter apprezzare a pieno questa gustosa cassetta pubblicata dalla Lonktarr di Michele Mazzani (Gelba). Ben fatto. (Giacomo Tomasetti)
POLVERIERA, From 143 To 236 (Körper/Leib, 2015)
A Napoli ci sono tante e tali micro-scene che sarebbe interessante provare a fare una mappatura dettagliata di quello che lì nasce e muore, chissà se ci sarà mai qualcuno che avrà il coraggio di farlo in maniera estesa… La Polveriera è Fabrizio Vatieri, che viene dalla fotografia e da studi di architettura e in precedenza aveva militato nei Ne Travaillez Jamais (che nome…). Ora l’esordio, grazie a questa tape-label che ha licenziato una manciata di uscite più o meno “rumorose” e sempre difficili da etichettare: Talibam!, Aun/Rainbow Island, Sandra Bell, Eks, Bitcoin. Va subito detto che From 143 To 236 prende spunto da un suo cambio di residenza, e che si tratta di una cassetta composta da quattro pezzi che provano a cucire atmosfere plumbee, si ascolti la melodia quasi carpenteriana e alienante di “Untitled #2”, o a rielaborare con un certo gusto ritmiche marziali, la lenta passeggiata in territori quasi industrial-techno di “Untitled #3”. La traccia posta in chiusura, invece, è un esperimento dai buoni risultati: uno stranito cerimoniale per appassionati di rumorose freakerie, una roba storta e per questo interessante (Vatieri usa molti strumenti, tra cui varie Roland, tape recorders, etc.). Speriamo non finisca qui. (Maurizio Inchingoli)
MARIA VIOLENZA/HOLIDAY INN, Split (My Own Private Records, 2015)
E scriviamo qualche riga su questo split della romana My Own Private, pubblicato in occasione del Get Married Tour d’inizio giugno 2015. Una di queste tappe ha toccato il Blackout Fest, giunto nientemeno che alla ventitreesima edizione. Leggo la scaletta: minchia! Maria Violenza a Torino? E quando mi ricapita? Così ho prenotato una delle 25 copie, che poi si sono trasformate in un acquisto di quattro. Già, l’appetito vien mangiando. Su un lato quel minuscolo arancino siculo di Maria, dall’altro il frastornante duo borgataro degli Holiday Inn. Due modalità distinte di incazzatura punk, legate fra loro dall’uso dello stesso strumento: il sintetizzatore. Ero tanto curioso di ascoltare dal vivo quelle brevi e azzeccatissime sequenze melodiche e afrodisiache della giovane siciliana trapiantata a Roma, talvolta cantate in inglese, in francese e… siciliano… no, sorry, palermitano. Antipasti mediterranei, frutta candita dal gusto piccante, da gustare con un buon vino passito, insomma, arabic synth-wave, bollente e distorta o, se volete, da mercato Vucciria… Gli Holiday Inn, che suonano dopo Maria Violenza, si presentano assai stilosi sul palco come due maître del più lussuoso hotel, anche se, parlando di stile, non ho ancora visto nessuno battere Robert Hampson (Main) per la reunion dei Loop. Se su nastro vi sembrano rumorosi e arrabbiati, beh, dal vivo sono ancor più aggressivi e distorti. Hanno davvero un forte impatto energetico e nevrotico, degli isterici Suicide travestiti da DAF, virulenti quanto gli Atari Teenage Riot e burloni come Alberto Camerini. Piccola nota (spero mi sia permessa): tra le due esibizioni c’è stata anche quella dei francesi Delacave, che già conoscevo, e poi comunque il nome dovevo per forza citarlo visto che l’unica persona con cui abbiamo aperto bocca (sì e no circa cinque secondi) in questa serata è stata la loro cantante. Mi auguro ci sia ancora qualcuno in questo mondo che abbia un pochino di curiosità tanto da spulciare il net per cose sensate. (Massimiliano Mercurio)
ANDREA GIOMMI (with Alessandro Gobbi and Matjaž Mlakar), Saffron Dawn Europe – A-B-Normal #2 (Kaspar House Studio, 2015)
Anni fa vidi al Covo di Bologna, di supporto ai Moon Duo, gli italiani Edible Woman, e non mi colpirono molto. Nel frattempo Andrea Giommi, che vive a Londra, ha cambiato strada mettendo su una nuova band, The Emerald Leaves, ed ora si presenta in “solo”, coadiuvato però dal sax dello sloveno Matjaž Mlakar e dal batterista Alessandro Gobbi, e il frutto è questa interessante cassetta in uscita per la campana Kaspar House (Hysm?Duo, Fabio Crivellaro), appartenente alla serie A-B-Normal. Un solo pezzo, piuttosto articolato ed atmosferico, che all’inizio sembra quasi uscito da un disco della NCCP, tra chitarra pizzicata nervosamente, kazoo, batteria primitiva e pestona, e strani segnali Morse che stanno, forse, a testimoniare di un lontano mondo rurale che non esiste più, ma continua ad affascinare molti, compreso il sottoscritto. Pensate per un attimo a degli Heroin In Tahiti “dopati” e senza corrente elettrica – solo per darvi un minimo di coordinate – che se la battono, appunto, con un oscuro e poco addomesticato gruppo folk in una cantina. Il sax rimane certamente lo strumento che più si nota, malinconico ed atmosferico per antonomasia, e infatti la parte centrale/finale è quasi tutta per lui, fino a sfumare in uno stranito “silenzio” che è di per sé “musica”. Attendo ulteriori novità. (Maurizio Inchingoli)
FROE CHAR, Foreigner Skin (Modern Tapes, Spielzeug Muzak, 2015)
Dietro il solo-project Froe Char c’è Cristina Lauro, giovane e misteriosa ragazza italiana da anni trasferitasi in terra parigina. Foreigner Skin (già sold-out) è un breve ep, ed è uscito in contemporanea del tour dello scorso aprile/maggio svoltosi nel continente americano. Ammaliante e dolce come il canto di una sirena. Nonostante una certa inquietudine iniziale (“Head”) dagli influssi gotici e witch-house (“Open Scene”), la cassetta si allinea su oscure basi synth-wave che accarezzano le guance, rimanendo nel contempo, leggiadra e volatile come una piuma d’oca che naviga su un tormentoso ruscello di montagna. Risuona nell’insieme elegante come un film erotico d’autore ed effervescente come una caramella con all’interno del frizz al gusto cola, ma è anche meno ovattata ed eterea di Panegyric e ha meno risvolti post-punk rispetto all’esordio New Swans’s Death del 2009 (ricordiamo che l’artista proviene dagli In Loving Memory, band ligure dalle coordinate batcave). E se nel full-length Fossils – dove la sofferenza è di casa – cominciava a sciogliere alcune di quelle parti sintetiche, nonostante i sintetizzatori fossero ancora ingabbiati e incatenati, qui possiamo affermare che quel plasticoso audio-nettare di provenienza chiaramente anni Ottanta lo libera del tutto, aprendo definitivamente i lucchetti e gettando le chiavi nelle buie acque della Senna. Etichette come Aufnahme + Wiedergabe o Phantasma Disques non sono male, anzi, però mi domando: bisogna andare per forza in quella direzione, se ci sono edizioni come la Modern Tapes e la Spielzeug Muzak? (Massimiliano Mercurio)
MULO MUTO, Eclipse & Equinox (L’é Tütt Folklor Records, 2015)
Reduce dal tape-crash Examination, il duo svizzero Mulo Muto (Attila Folklor e Joel Gilardini) si ripresenta con queste due scosse telluriche dal titolo Eclipse & Equinox (solo 13 copie disponibili), e comunque: se loro sono elvetici di Zurigo, allora io sono scandinavo di Oslo. Leggo ritual doom noise, poi guardo la copertina, ed esclamo: maledetti, son fregato, questa sì che è roba mia! E così è, anche se devo ammettere che le geometrie rituali sono confinate al solo intro di “Eclipse”, che rimanda sicuramente ai mantra interminabili e gutturali dei Phurpa. Ma va bene, basta preghiere, formule magiche o bamboline voodoo da usare come oggetto cerimoniale, anche perché l’offuscante incipit relativo ad eventi pieni di fascino e mistero – come sono appunto l’eclissi e gli equinozi – si avverte lo stesso, soprattutto in “Equinox”, dove si ha l’impressione che quella serie cadenzata di frequenze distorte di rumori tagliuzzanti, amplificati da un infernale sottofondo drone e inquietanti martellamenti in lontananza, sia un codice alieno che permette l’apertura di porte stellari. Tutta questa manipolazione aggressiva e sintetica non esclude il fatto che si possa viaggiare con la fantasia. Sto infatti immaginando una delle tante tribù Maya che, spinte dal frastornante richiamo dell’analogico nastro dei Mulo Muto che fuoriesce da un gigantesco totem somigliante ad un walkman, percorre silenziosamente le linee religiose ed extraterrestri di Nazca per assistere all’evento celeste. (Massimiliano Mercurio)
THE REPTILIAN SESSION, The Reptilian Session
Una decina anni fa a Roma il genere che andava per la maggiore era il black metal, ora quasi totalmente passato di moda (un po’ ovunque, ma nella Capitale in particolar modo). A colmare questa lacuna ci sono i The Reptilian Session, un progetto nato quest’anno che debutta con questa tape di sole quattro tracce. Ci sono veramente poche informazioni su di loro: ad occuparsi della composizione dei brani c’è M. Puliani, che canta e suona il basso, mentre alla chitarra e alla batteria ci sono, rispettivamente, T. Aurizzi e C. Usai. Lo stile è un black grezzo, primordiale e di derivazione norvegese, che ricorda i Darkthrone di Under A Funeral Moon e Panzerfaust, con un evidente riferimento alle loro principali influenze (Hellhammer, Bathory, Venom). La stessa registrazione si rifà a quel sound e a quell’attitudine “no compromise” tipica dei Necrohell Studios: più che incidere sull’aspetto “glaciale” del genere, la voglia è quella di concentrarsi sul lato più diretto, marcio e demoniaco di questo (che ne rispecchia la vera essenza). Dietro il mixer c’è Luciano Lamanna, figura più che storica del panorama underground, dentro a mille progetti come Tekno Mobil Squad, Der Noir, Lunar Lodge e attualmente attivo nel collettivo LSWHR, che collabora anche con un’introduzione noise nella traccia “Dark Matter Of Anti-Universe”. Tutti i pezzi qui contenuti sono molto buoni: è difficile dare un giudizio vero e proprio con così poco materiale, ma non si può negare che sia un lavoro veramente godibile, del quale ci si augura una continuazione. Era molto tempo che da Roma non usciva fuori qualcosa nell’ambito che fosse convincente, soprattutto in un periodo in cui suonare questo genere non è più scontato né facile com’era un tempo (il che portava spesso a formare band discutibili). L’uscita è autoprodotta, in pieno stile diy, ed è limitata a sole cento copie, alcune delle quali distribuite dalla Despise The Sun Records e dalla Murdher Records. (Daniele Zennaro)
CAMPOMORTO, S/t (Angst, Scorze Records, 2015)
Le “nostre” etichette romane, che prediligono le collaborazioni a più mani piuttosto che le proposte individuali, ne hanno combinata un’altra. In questo nuovo nastro abbiamo una fusione di elementi che ci aveva già colpito con il primo esperimento dedicato a Pasolini: Autocancrena e A Happy Death. Un rumore di fondo incessante come quello di un tornio che gira crea un’atmosfera da fabbrica, lavoro e schiavitù, dove l’alienazione e la solitudine rimbombano metalliche. Su questo eco sembra di distinguere diverse macchine arrugginite che infondono stati d’animo di rassegnazione e fallimento, ognuna con una sua identità e una sua voce. Stridi acutissimi, che ricordano le emicranie che trapano il cranio di Max Cohen, si schiantano contro uno sciabordio d’acqua rilassante nella sua monotonia torbida, turbato di tanto in tanto dai rumori della mente.
Un breve monologo sulla desolazione di un paesaggio abbandonato, tratto da “Cielo sulla palude” (Augusto Genina, 1949) getta un’ombra inquieta sul panorama della Capitale, a metà tra l’operosità delle sue tante formiche e un’aridità che prima dilaga sul piatto terreno e poi si fa spazio all’interno, divorando. (Giulia Romanelli)
EKS, Eksm (Körper/Leib, 2015)
Un’introduzione jazz-noise alla John Zorn apre questa cassetta firmata dalla partenopea Körper/Leib, e non dobbiamo stupirci dato che ciò che segue è un caos di micro-tracce impazzite, un calderone dove vengono fusi basi calde e molleggiate, rumori e sintetismi 8 bit. Se alcune di queste 24 parti sono mine vaganti brevissime e contorte, dove ci mettono lo zampino anche gli Aspec(t), sulle altre si spalma un dub anni Novanta caldo e denso, uniformando basi dove gli schizzi noise, gli scratch e delle atmosfere che vedrei bene in un disco death rap si ammassano gli uni sugli altri, senza creare un chaos volontario ma al tempo stesso senza un piano, come una collezione di figurine in disordine sul pavimento che aspettano di essere incollate all’album giusto.
Se la frenesia domina in superficie (un accumulo impalpabile di impulsi ronzanti come una nube di insetti), sotto sembra di sciogliersi, dolcemente immersi in alte temperature. Nei miei sogni su questi pezzi ci rappano i Melma & Merda. (Giulia Romanelli)