HOLLY HERNDON, Platform
S’è fatto un gran parlare di questa uscita, i motivi sono tanti e legittimi, quanto gli input stessi che Platform, seconda e più matura prova dopo Movement del 2012, dà all’ascoltatore. Interessante notare la fusione tra melodia, immaginario, tecnologie impiegate e discorso filosofico che si cela dietro tutto ciò, e va detto che finalmente pure la 4AD viene fuori con qualcosa di meno scontato rispetto alle ultime uscite, generalmente non memorabili. Data l’evidente complessità dell’insieme, non ci penso neanche ad addentrarmi troppo in un mondo scivoloso come quello rappresentato/teorizzato dalle riflessioni che si sono lette in giro sulla stampa specializzata, perché non è il mio particolare campo d’azione. Potrei quindi chiudere qui la recensione, ma rimane comunque la voglia di provare a descrivere quello che c’è qui dentro, e posso affermare senza tanti giri di parole che l’album sembra avere il suo perché, insomma il suo fascino oggettivo, anche se alla fine è – e resta, appunto – una pubblicazione pensata/composta da una studiosa grazie al decisivo apporto di macchine e software (e del diy digital-artist, nonché compagno, Mat Dryhurst) che si adattano a – e vengono utilizzate per – quella che è probabilmente la principale ragion d’essere dell’insieme: mettere su delle composizioni “pop” dal taglio raffinato e poco etichettabili, con tutto quello che comporta quel termine cosi generico ed enormemente carico di significati. Colpisce ad esempio la vena melodica di “Chorus”, esercizio selvaggio di cut-up che prova a ri-costruire verosimili architetture dance, lo stesso discorso vale per la sacrale e complessa sartoria di voci di “Unequal”. Tutto l’album si fonda su di un’operazione di destrutturazione delle fonti sonore che non può non ricordare anche la glitch-music portata avanti ai tempi da gente come Matmos, ma è chiaro che la Herndon è lucida su questo punto, sa come aggirare la questione, grazie anche agli ospiti che fanno la loro parte (Spencer Longo del giro Not Not Fun, la presenza misteriosa di Amnesia Scanner, tra gli altri), e prova a dare una rinfrescata a idee e suggestioni dalle quali il suo mondo si è sempre fatto stregare, ricordo che è doctoral student in composition alla Stanford University. “DAO”, per esempio, è aliena il giusto, e lo speech di “Locker Leak” pare una versione molto più radical chic di un pezzo iper-prodotto di Madonna, ma sto volutamente tirando troppo la corda del paragone. Detto questo, e già per il solo fatto di come si provi a portare più in avanti l’asticella di una pesante “ri-scrittura”, non saprei davvero dire quanto durerà l’effetto dei brani stessi, accompagnati da quella sorta di “ubriacatura/euforia mediatica” che mi ha ricordato quella per gente come James Ferraro e Oneohtrix Point Never. Il suo innegabile talento farà di certo la differenza, ma anche il tempo, ed eventuali altre uscite discografiche, potranno confermare o meno il suo vero portato artistico. Per ora godetevi i pezzi.