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HILDUR GUÐNADÓTTIR, Saman

Hildur

Quarto album in studio – sempre per la britannica Touch – per la graziosa e brava violoncellista islandese Hildur Guðnadóttir. Basta con l’inglese, questa volta la musicista decide di espellere definitivamente le proprie emozioni attraverso la lingua madre, come testimoniano i titoli delle dodici brevi tracce, nonché il titolo, “Saman”, che tradotto significa insieme.

Crepuscolare e infarcito di chiaroscuri (in verità più scuri che chiari), Saman forse racchiude e vuole raccontare una storia d’amore finita male, cercando disperatamente di scrostarsela di dosso. Per certi versi il violoncello suonato in questa maniera potrebbe ricordare alcuni passaggi inquieti stile Haxan Cloak del primo disco omonimo o Hermann Kopp, anche se in questi casi è il violino a farla da padrone. Per questo motivo a tratti suona tremendamente noir e lugubre (“Í Hring”), mettendo ansia e terrore, ma sono le struggenti parti vocali – “Heima” (casa) su tutte – a riportarlo sui binari più consoni, vale a dire lacrimevoli. Poesie leopardiane, cartoline sbiadite e nebbiose (“Þoka”, ovverosia nebbia), paesaggi autunnali, pioggia battente che somiglia a lacrime color sangue, marce foglie di salici piangenti che si staccano dalle pareti interne del cuore come fossero pezzetti di racconti tristi da seppellire, e petali di rose rosse che, trasportate dai sospiri, si adagiano dolcemente nel profondo dell’animo per lì rimanere in eterno.

Non ci va molto a capirlo, ci sono malinconia e tristezza da vendere in questo disco. È commovente e profondo, insomma, quei tipici suoni caldi che da queste parti etichettiamo con la solita frase: l’inquieto che quieta.