Haikufestival: Gianpaolo Antongirolami e Michele Selva duo, Peter Evans solo
Ravaldino In Monte (FC), Area Sismica, 10 marzo 2019.
Torno finalmente ad Area Sismica, in quel luogo miracoloso nelle campagne attorno a Forlì, nella casa rossa dove si forgiano suoni per resistere all’omologazione imperante; del resto, quando quest’estate avevo visto a Mulhouse Peter Evans in solo ero rimasto a bocca aperta, per cui oggi non si poteva proprio mancare.
Serata tutta dedicata agli strumenti a fiato (si inizia intorno alle 18, scelta azzeccatissima che permette ai non pochi venuti da lontano di tornare in tutta tranquillità), con una prima parte che vede protagonista il duo di sassofoni formato da Michele Selva e Gianpaolo Antongirolami, concentrati su un programma il cui focus è interamente sulla scena british, londinese in particolare. Quattro composizioni per altrettanti autori, nati tra il 1951 ed il 1972. Il velluto, preludio di multifonici e limbo di risonanze e specchi di James Saunders, una sorta di rito iniziatico per un altrove indefinito ed indefinibile, un pezzo del 2012 che sembra provenire da una imprendibile origine del mondo. Ci si addentra nella scuola della New Complexity, dove la difficoltà della scrittura e dell’esecuzione sono una sorta di tentativo eroico da parte dell’autore di giungere ad una perfezione impossibile da agguantare: così nelle parole di Michele Selva, anche se al nostro orecchio tutti i dettagli di questa complessità a volte sfuggono. Il pezzo di Christofer Fox si apre su minime cellule melodiche ritmiche che sfiorano la banalità, lo sviluppo poi si fa interessante, ma restiamo poco convinti. “Fragments Of Becoming”, frammenti del divenire, viene introdotto dal compositore Sam Hayden, presente in sala: è una prima assoluta di un lungo pezzo originariamente pensato per pianoforte. Da questo, spiega l’autore, sono rimasti esclusi alcuni materiali che sono stati riorganizzati per sax baritono e soprano. La musica non è mai un oggetto, cambia sempre, non si ferma mai, ci ricorda il musicista. Siamo nei territori aspri e privi di appigli dove l’avant-jazz (Braxton?) e la contemporanea si incontrano. Chiude una composizione di James Erber, anch’egli presente in sala; molto bella la sua introduzione, dove spiega il significato del titolo, “Crai”, parola di alcuni dialetti meridionali ad indicare domani; in Puglia, ad esempio, ci sono parole anche per definire dopodomani, ed il giorno dopo, e quello ancora, e quello ancora dopo, sino ad arrivare ad un domani assolutamente indefinito. Suoni grotteschi, come una riprova del voler distinguere (senza poterlo veramente fare?) nelle eterne nebbie del crai, dice Erber, ed il risultato è una musica difficile da descrivere, che fa fiorire in testa domande senza dare alcuna risposta, che stimola le sinapsi pur risultando a tratti un po’ asettica. Del resto, come sosteneva John Cage, there is nothing to say, and I’m saying it.
Il solo di Peter Evans sembra la perfetta risposta a questa elusiva sentenza cageiana: un catalogo extraterrestre delle possibilità del respiro umano, una capacità di controllo delle dinamiche, dell’emissione, delle tecniche estese che ha del prodigioso. Non sentirete né altrove né mai una tromba suonata così, con questa intensità, questa intenzione, questa padronanza, che definire totale è poco, dello strumento e di ogni suo aspetto. Suoni gravi come da canto buddista, fratture che sanno di elettronica, satori, furori. Polveri scovate chissà dove, respirazione circolare, ritmo, flusso, poi ancora ritmo, flusso. Rimbrotti, sbuffi, fughe iperjazz come un Gillespie in preda ad una droga che velocizza all’inverosimile il pensiero e l’efficienza: le capacità di questo musicista mettono in difficoltà il linguaggio, andrebbe semplicemente visto ed ascoltato per capire. Dotato di una tecnica che mette quasi soggezione, riesce a farsi completamente trasportare dal flusso della musica, è lì, in mezzo alle onde ed alle vibrazioni, noi siamo lì con lui, storditi e felici, a volte forse travolti da troppe note, ma sono davvero dettagli; questo musicista ha raggiunto una soglia alla quale pochissimi sono arrivati, si affaccia sul bordo di un precipizio o osserva da un impervio altipiano le vicende dell’attualità musicale. Ha guadato un fiume dal quale non c’è probabilmente ritorno: dove sta lui, il farsi del suono, il suo infinito evolversi è esso stesso musica compiuta ed in eterno, multiforme divenire. Sono sinfonie da tasca per fughe e respiri, feroci attacchi con la foga del punk e il controllo di un accademico ipervirtuoso, speleologia, psicologia, astronomia, trattati di filosofia e di fisica, manuali di acustica e di dinamica, pagine strappate da filosofie che ci ricordano che siamo umani, troppo umani. Con Evans viene il dubbio a volte che di umano ci sia poco, nel bene a dire il vero in qualche frangente anche nel male (un tale controllo ed una tale esibizione di potenza e di plurilinguismo possono avere come contraltare una certa freddezza, che lascia sì attoniti ma anche forse distanti).
In chiusura un plauso ad Area Sismica, un posto capace di organizzare serate come questa che, comunque sia, aprono la mente e che nell’immediato futuro ci proporrà domenica 17 marzo il The Fictive Five, un quintetto guidato dal fondatore dei ROVA Saxophone Quartet, Larry Ochs, sabato 23 marzo il trio Dunaj, una leggenda della musica di quella che un tempo si chiamava Cecoslovacchia, per chiudere il mese poi il 24 marzo con un concerto al buio con il pianista statunitense Thollem McDonas. Questo evento è solo su prenotazione, per questo e per qualsiasi altro dettaglio il consiglio è di scrivere (info@areasismica.it) e di visitare il sito (www.areasismica.it). Da queste parti ne vedremo (ne vedrete) sempre delle belle.