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Hagazussa, Hereditary, Annihilation: quando il cinema di genere chiama musicisti “indipendenti”

Film scores – especially where Geoff and I grew up in Bristol – were our gateway into interesting music. We all heard Beatles records and whatever classical music our parents played, but I didn’t hear interesting classical music until I saw Planet of the Apes. (Ben Salisbury)

Musicisti “irregolari” o “alternativi” sono sempre entrati al cinema, anche in quello finanziato con grossi budget. Qualcuno ce l’ha ben presente, ad esempio Netflix o case di produzione come la A24: c’è meno ingenuità, nel senso che si è consci al 100% che coinvolgere determinati artisti in un film può essere una buona mossa di marketing e un nuovo modo di fare soldi, perché tanti appassionati di musica vanno matti per le soundtrack, si tratti di quelle del passato, spesso di film di genere (vero Death Waltz?), o di quelle del presente, spesso di film di genere. Inoltre che – ça va sans dire – qualcuno ritiene legittimamente questo un modo per incrementare l’originalità e il valore artistico di una pellicola (o di una serie). Se da un lato la presenza del musicista più o meno underground (Mica Levi, Daniel Lopatin, Scott Walker…) in un film più o meno eccentrico e più o meno “indie” sta diventando un meccanismo automatico, dall’altro siamo ancora in una fase in cui questo permette di respirare un po’ d’aria fresca. Seguono tre esempi “da The New Noise” di dischi pubblicati nel 2018.

Hagazussa – Der Hexenfluch” (2017), di Lukas Feigelfeld, classe 1986, film che nelle sale italiane non s’è visto, è un lavoro dolorosissimo, è tutto quello che le donne per secoli hanno subito e spessissimo subiscono ancora, è il loro soffrire in silenzio nel mezzo di una società indifferente, se non peggio. “Hagazussa”, termine germanico arcaico per “strega”, non sa cosa sia il ritmo e non conosce quasi il dialogo: centrali sono le immagini, spesso della natura gigantesca e anch’essa indifferente, e dei non-detti atroci. Ecco perché la colonna sonora dei Mohammad (MMMD) è semplicemente un altro disco dei Mohammad, sembra che si sia trattato di un incontro inevitabile: il drone immenso e profondo dei greci (realizzato, ricordiamo, con oscillatori più violoncello e contrabbasso suonati con l’archetto) rispecchia la maledizione inestirpabile di cui è vittima la povera Albrun, protagonista di questo pugno nello stomaco.

Di “Hereditary” si è parlato molto quest’anno, in positivo e in negativo, con una parte di critica e pubblico che si è gasata e un’altra parte che ha visto troppo hype intorno a un film che ha anche le sue incongruenze: il regista è il giovane Ari Aster, tra l’altro al suo esordio, e a produrre sono quei furboni di A24. Più che un horror soprannaturale, “Hereditary” è un horror sulla famiglia, che – non ce ne voglia il ministro Fontana – può diventare incubatrice di mostruosità indicibili. Un altro mostro coinvolto nel progetto è il sassofonista Colin Stetson, conosciuto bene dai fan della Constellation, autore di uno score nero e potentissimo, con cui a tratti invade la scena a colpi di bordoni. È semi-nuova la cassetta degli attrezzi utilizzata per raggiungere lo scopo: a giudicare dalle interviste e da quello che si sente, contiene soprattutto su clarinetti, coi quali sostituire anche i più ovvi archi e sintetizzatori, facendo a meno anche delle percussioni. A occhio e croce, anche grazie a questo cambio di timbro, per quanto non inusitato, si evita qualche cliché dei thriller/horror. I clarinetti sono bestie che ruggiscono da lontano e gridano a tutta forza quando ormai stanno per ucciderti.

Con “Annihilation”, tratto dai libri di Jeff VanderMeer e finito quasi direttamente su Netflix in seguito a vari casini, prosegue – dopo “Ex Machina” – quello che i veri giornalisti chiamano “il sodalizio” tra il regista Alex Garland e i musicisti Geoff Barrow (quindi Portishead, quindi Invada Records) e Ben Salisbury. Il film, discusso quanto “Hereditary”, è un mix di tante influenze e citazioni, per cui qualcuno esce dalla sala pensando a “Solaris” mentre quello vicino a lui parla con l’amico de “La Cosa” o di quella scena che assomiglia a quella di “Alien 3”, e così via…
Barrow e Salisbury, rispetto al kosmische “Ex Machina”, utilizzano molta più strumentazione, non solo elettronica: ricordiamo tutti le scene iniziali introdotte da una semplice chitarra acustica, come a dire la quiete prima della tempesta, seguendo il film una sorta di climax ascendente nel corso del quale fanno ingresso orchestra e poi i synth, lasciati fino a quel momento in disparte. Non a caso, la parte più strana della colonna sonora, quella che tutti ricordano, si trova verso la conclusione, specie una breve sequenza di quattro-cinque note distorte di synth, finite persino dentro il trailer, che hanno fatto impazzire chiunque: le testimonianze in rete sono facilmente trovabili. Si tratta di ciò che sentite qui al minuto due e quaranta.

Siamo di fronte dunque a uno score che in determinati giri rischia di diventare di culto proprio per questa indovinatissima – e memorizzabile – conclusione.